I terroristi che ritornano non si vincono con le solite ricette

Posted on 24 marzo 2016

0



Dal 2001 a oggi in Europa abbiamo assistito a un numero di stragi terroristiche tutto sommato contenuto. Nel 2004 e nel 2005 ci sono stati gli attacchi a Madrid e Londra, figli dell’impegno dei due paesi in Iraq, poi poco o niente fino al 2011, quando con la strage di Oslo Andreas Breivik ha falciato una settantina di giovani e meno giovani accusati d’erre troppo «buonisti» perché non condividevano il suo odio per gli immigrati. Poi pochi mesi fa sono arrivati gli attacchi di Parigi e ora quelli di Bruxelles. Numeri che spiegano bene come gli uomini pronti a morire per fare una strage siano in realtà pochissimi e per niente rappresentativi delle comunità di riferimento, che non si dilettano in attentati minori o esecuzioni di personalità e uomini politici come invece accade nei paesi dove gli uomini del califfato sono più numerosi  pericolosi.

Per quel che riguarda il terrorismo di matrice islamica o islamista non si può nemmeno parlare di continuità, anche se tutti gli attentati in Europa hanno molti punti e caratteristiche comuni, a cominciare dall’ideologia di riferimento dei gruppi in azione. Il riapparire in Europa delle stragi, a distanza di 10 anni da quelle di Londra e Madrid, non è solo figlio dell’islamismo radicale che non è mai scemato nel frattempo, ma di una congiuntura storica e politica che l’Occidente ha la responsabilità d’aver (ri)creato e che ha provocato decine di migliaia di vittime nel mondo, soprattutto vittime musulmane nei paesi musulmani. al grafico che segue mancano le vittime di diverse guerre, che hanno favorito la diffusione di questo tipo di terrorismo.

vittime

Così come l’assurda invasione dell’Iraq del 2003 aveva provocato nell’Islam salafita sentimenti di violenta ostilità nei confronti dell’Europa, 10 anni dopo si può ben dire che le nuove stragi siano figlie di precise scelte politiche europee, in particolare delle decisioni che prima han visto sponsorizzare la guerra civile in Siria e poi decidere che buona parte dei freedom fighter (combattenti per la libertà) partiti con il placet se non con l’aiuto degli stessi governi europei, erano diventati terroristi, anche grazie alle armi e all’addestramento gentilmente offerto gentilmente loro nella speranza che abbattessero Assad.

L’idea di abbattere Assad, che dall’invasione dell’Iraq era stato un fedele alleato dell’Occidente, al punto da accogliere milioni di rifugiati iracheni e d’aver torturato jihadisti per conto dei servizi americani, si è dimostrata fallimentare. E ancora di più quella di farlo attirando nel paese «combattenti» stranieri che non potevano che essere giovani vicini al radicalismo islamico o criminali in cerca d’avventura. Da alcuni paesi europei sono partiti alcune centinaia di volontari, dalla maggior parte solo alcune decine, di questi numeri si parla quando s’inquadra il fenomeno qualitativamente, pochissimi sui milioni di musulmani presenti in Europa. Figli d’immigrati, ma anche convertiti e criminali comuni, pochissimi provenienti da famiglie radicalizzate, quasi tutti che invece hanno cominciato a coltivare l’idea quando s’è offerta la disponibilità d’andare all’avventura in Siria con il consenso di tutti, un Far West legalizzato e facilmente raggiungibile, persino relativamente comodo, nel quale dare sfogo al fanatismo religioso come ai giovanili sogni di gloria o semplicemente d’azione che sembrano aver spinto il gruppo franco-belga assurto ultimamente alle cronache. A muoversi da Francia e Belgio sono gruppi d’amici o di parenti che partono alla ricerca di un futuro migliore o della gloria. Quasi nessuno di loro risulta «radicalizzato» o particolarmente religioso prima di partire per la Siria e nemmeno al suo ritorno, sembrano più figli dell’emarginazione di due capitali europee, che figli del salafismo coltivato nelle moschee più radicali, che non frequentano.

Poi tutto è andato male, è nato il califfato e quella che sembrava una festa è diventata una sentenza di morte per questo genere di sogni e aspirazioni. Mentre i freedom fighter diventavano temutissimi terroristi e dalla Siria i profughi cominciavano ad arrivare a ondate in Europa, l’ISIS diventava il male, Assad un’opzione preferibile e i freedom fighter un male contro il quale si è mobilitato il mondo. Esclusa forse la Turchia di Erdogan sono finiti sotto il tiro di tutti dall’Iraq alla Siria, dove persino gli oppositori di Assad si sono coalizzati contro i fan del califfato. Quella che era cominciata come un’inarrestabile avanzata nel vuoto si è così trasformata prima nel tiro a segno dall’alto da parte di americani e alleati e poi nell’entrata in battaglia contro il califfato di curdi, iracheni, paesi occidentali e del Golfo, Lega Araba, Iran, Libano, Giordania oltre a una lunghissima lista di paesi che hanno sposato l’ostracismo nei confronti dell’ISIS. E alla fine è arrivata la Russia che ha gettato il suo peso militare sul piatto di Assad, consolidandone il potere mentre il resto del mondo s’accaniva sul califfato.

La vita per gli aspiranti jihadisti è così diventata molto più dura, se non impossibile e l’appeal dell’impresa è calato moltissimo presso i combattenti che affluivano dall’estero, dall’Europa come dal Nordafrica o da paesi vicini e lontani, come la Cecenia o quelli dell’Asia. Almeno 29 belgi sono morti in Siria. Di più, i freedom fighter partiti sull’onda di un consenso unanime si sono ritrovati al ritorno nella lista dei più pericolosi ricercati e oggetto di odio e paura da parte degli europei. Ma anche da parte degli immigrati musulmani, che per lo più sono qui perché non vogliono vivere come si vive nei paesi di provenienza, invadenza della religione nella sfera pubblica compresa.

Non rimaneva molto da fare al gruppo di francesi e belgi che hanno portato a termine gli attacchi a Parigi e Bruxelles: morire tentando l’ultimo gesto, rientrare nei ranghi di una vita normale e grama, la stessa di genitori, amici e parenti che non condividevano la loro scelta oppure finire in galera per parecchi anni, almeno per i molti di loro avevano già precedenti per reati comuni ed erano già conosciuti dal milieu criminale locale. Gli attentatori di Parigi non si sono riforniti di armi grazie al contrabbando organizzato dai fratelli nella fede, ma grazie all’opera di  Claude Hernant, un noto estremista di destra e pure informatore della polizia, ex mercenario e ora commerciante d’armi accusato di trafficarle anche in modo illecito.

belg

I fratelli Bakraoui erano da tempo finiti sulle prime pagine

Giovani francesi e belgi di poche speranze si sono così prima illusi e poi sono rimasti delusi e non è difficile capire perché abbiano rivolto la loro ostilità verso i loro stessi paesi e verso quelle persone indifferenti ai loro problemi e tanto apertamente ostili nei confronti della loro scelta. Non c’entra il Belgio come non c’entrano gli editoriali che, delirando, lo segnalano come uno «stato fallito» o che parlano di un bisogno d’agire e di far qualcosa senza avere idea di cosa fare, tanto più che proprio le storie di quest’ultimo gruppo di terroristi dimostrano che con appena un po’ più d’attenzione da parte delle forze dell’ordine, non sarebbe stato difficile fermarli. Erano tutti già noti  e segnalati, alcuni persino tracciati e seguiti nei loro movimenti, se sia stato un «fallimento dell’intelligence» non è dato saperlo, ma i coinvolti si nascondevano dove sono nati e dove potevano contare su complicità e amicizie, proprio come fanno i latitanti anche da noi, dov’è considerato un successo degli investigatori anche se li trovano dopo 40 anni trascorsi in latitanza sotto casa.

Se si vuole trovare un motivo per quello che sta accadendo non bisogna andare tanto lontano e se è vero che questi giovani sono stati attirati dalle sirene del califfo, è altrettanto vero che dall’altro sono stati prima respinti da una realtà sociale che li ha emarginati e poi spinti a mettere in gioco le loro vite nella speranza che potessero servire ad abbattere il regime di Assad, che troppi hanno profetizzato che sarebbe caduto come altri già erano caduti nel corso delle primavere arabe. Non è stato per l’Islam che molti sono andati a combattere e non è stata la riluttanza americana a seguire francesi e britannici nello scatenare una guerra aperta contro Assad ad offrire loro questa serie di occasioni sbagliate. Sono state le politiche avventuriste e sconsiderate di alcuni governi, europei e non, che prima hanno fatto il danno e poi si sono disinteressati dei cocci che hanno lasciato in giro. Come non si sono preoccupati di trasformare la Siria o altri paesi in una palestra di violenza, così non si sono preoccupati della sorte di quanti hanno mandato allo sbaraglio contro il regime siriano e nemmeno della loro sorte una volta che abbiano incassato sconfitte e siano diventati paria in Siria come nel resto del mondo.

rio

Non aiutano gli esperti giornalisti che si lanciano in deliri del genere

Per combattere il fenomeno non servono un enorme spiegamento di forze o controlli più stretti di quelli già in vigore e non serve nemmeno, perché per questo è troppo tardi, intervenire sul disagio ai margini delle metropoli europee. Aiutare e recuperare chi si sente e in definitiva è un cittadino di serie B, dovrebbe essere sempre una priorità dei governi dei paesi democratici, conviene a tutti, ma anche cominciare subito gli interventi da tempo suggeriti da sociologi e analisi accumulate inutilmente negli anni, avrebbe poco o nessun effetto qui e ora. E non solo perché l’enorme area che comprende questo tipo di disagio ha per fortuna partorito un topolino, perché in termini numerici i giovani jihadisti europei restano un’infima minoranza anche se si prendono a riferimento gruppi come gli immigrati in Europa e i loro discendenti o «i musulmani», come amano generalizzare i politici dell’estrema destra che ad ogni attentato calano a decine sui cadaveri ancora caldi.

Ora è invece importante capire la natura del risentimento di migliaia di giovani, europei e non, che incombono come una minaccia difficile da parare sui rispettivi paesi d’origine, riconoscere le responsabilità dei rispettivi governi e cercare d’affrontare il problema senza isterismi e soprattutto senza sprecare risorse in strategie sbagliate e controproducenti come quelle dispiegate nell’ultimo decennio. Occorre seguire e provare a recuperare i giovani che ritornano dai teatri di guerra; dove è bene ricordare che non vanno a raggiungere solo l’ISIS, ma a volte anche i gruppi che le si oppongono. Occorre rinunciare a sfruttare politicamente ogni attentato per la solita passerella di politici che se la prendono con i musulmani o con gli immigrati, ostacolare la predicazione d’odio salafita, ma sopratutto zittire le feccia razzista che a ogni occasione insulta e attacca immigrati e musulmani spingendoli ancora di più verso l’emarginazione e alimentando in loro odio e risentimento verso paesi e società che tacciono e non si ribellano mentre chi strizza l’occhio ai razzisti vilipende quotidianamente milioni di europei, che hanno il solo torto d’avere origini o credenze messe all’indice da razzisti, populisti e arruffapopolo, e che vivono la scomoda condizioni d’essere diventati gli ebrei d’Europa del nuovo millennio.

isis

Non c’è bisogno di proclami roboanti, come non c’è bisogno di rilanciare ricette che già si sono dimostrate fallimentari, c’è invece bisogno di un approccio nuovo a un problema nuovo che ha appena cominciato a manifestarsi. Anche in questo caso il prevenire è meglio e meno costoso del reprimere, per questo accanto all’attenzione delle forze di polizia deve crescere un’attenzione attiva a quello che è un problema sociale figlio di altri problemi sociali e della congiuntura storica e politica. Una congiuntura che peraltro s’oppone e svaluta gli approcci ragionati e poco gridati da parte dei governi europei, confermando anche in questo caso che problemi e risposte sono dentro di noi, ma che ancora oggi molti pensano di cavarsela puntando il dito e la repressione verso dei «loro» presi all’ingrosso come capri espiatori tra gli ultimi e i più emarginati.

Occorre spezzare questo ciclo d’emarginazione e d’odio e al contempo cercare di porgere una mano a quanti vogliono rientrare dimenticando l’esperienza siriana. Occorre una sorveglianza puntuale degli elementi che già si sanno pericolosi, realizzata magari distogliendo risorse dall’inutile sorveglianza di massa e investendole in attività investigative tradizionali. Ma soprattutto occorre finirla con le strumentalizzazioni dell’estrema destra, che non sono solo benzina sul fuoco dell’odio sociale, ma anche tempo ed energie perse ad avanzare rivendicazioni politiche ed ideologiche che nulla hanno a che vedere con il fenomeno in questione e con la minaccia rappresentata dagli estremisti cresciuti in Europa mentre i Salvini e le Le Pen  offendono, discriminano e calunniano migranti e «musulmani», giorno dopo giorno, da anni, attraverso giornali e televisioni. Questo circuito dell’odio non può essere spezzato usando la forza e la repressione, non contro i musulmani e nemmeno contro i razzisti, ma solo attraverso una battaglia politica e culturale che promuova i veri valori europei, che non sono quelli crociati o giudaico-cristiani, ma quelli di eguaglianza, rispetto e tolleranza ai quali l’Europa ha deciso d’affidarsi dopo millenni nei quali i suoi cittadini si sono scannati vicenda. Mai come ora diventa necessario ribadirli e spiegarli, agli aspiranti jihadisti come a quelli che ancora oggi giocano con l’odio e il razzismo senza capire quanto questo gioco sia il più pericoloso, per tutti.