Sudan contro Sudan

Posted on 28 marzo 2012

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Verrebbe la tentazione di ridurre a colore le notizie che durante la giornata si sono rincorse in merito allo scoppio di scontri tra le forze di Khartum e quelle del paese più giovane del mondo, nato dalla secessione sudista nel luglio scorso.

Gli scontri si sono verificati intorno alla zona di Abyei, che nei colloqui di pace che hanno messo fine a una guerra civile durata più di vent’anni, è stata lasciata in un limbo d’incertezza, rimandando a un accordo tra le parti una volta che potessero trattare da stato a stato. La storia si è subito incaricata di dimostrare che si è trattato di una decisione pessima,  poiché i governi dei due paesi sembrano avere un interesse convergente a mantenere alta la tensione, anche a costo di farsi molto male.

Se a Khartum siede un dittatore ricercato dal Tribunale Penale Internazionale con grossi problemi interni, al Sud comandano gli ex guerriglieri dello SPLA, che finora si sono segnalati solo per l’alto livello di corruzione, perché nonostante il governo sudanese incassi da anni i proventi della rendita petrolifera, non c’è ancora traccia di quei soldi trasformati in servizi, tanto che l’80% degli scarsi servizi alla popolazione è fornito da ONG internazionali e il resto da quel che rimane della sanità sudanese o da iniziative locali.

Il Sud Sudan è uno dei paesi più poveri del mondo, ma negli anni scorsi ha speso per acquistare carri armati usati, sfortunatamente caduti nelle mani dei pirati somali durante il viaggio verso il Kenya a bordo della motonave Faina e poi  liberati dietro il pagamento del solito riscatto. In teoria uno scandalo, perché tutto il Sudan era sotto embargo e il Sud nemmeno indipendente, ma il mondo si accontentò di una dichiarazione del Kenya che affermò di essere l’acquirente anche se i documenti di carico indicavano come destinazione il Sud Sudan.

Carri armati poco utili contro l’esercito nordista, quanto probabilmente indispensabili ad assicurarsi una certa supremazia interna nel novello stato, che ospita diverse etnie e rivalità interne e che dopo una guerra durata vent’anni nuota nelle armi. Che nessuno vuole lasciare per paura di quelle dei vicini. Uno scenario simile a quello che a Nord impegna al Bashir, che oltre alla grana del Darfur  deve affrontare  una mini-primavera araba alimentata dagli studenti nella capitale, il malcontento dell’esercito che si vorrebbe affrancare dal partito un tempo unico del “presidente” e la ribellione nel Kordofan, che voleva tanto andare con il Sud anche se non lo hanno voluto.

I recenti progressi sul fronte del Darfur, con la defenestrazione di Gheddafi e la ritrovata armonia con il dittatore del Ciad, Deby, non sono stati che brevi attimi di respiro in una carriera, quella di al Bashir, che si è sempre caratterizzata per la flessibilità ideologica e l’attaccamento al potere.

A scuotere i nervi dell’informazione globale è stata la notizia che i combattimenti abbiano lambito la zona dei pozzi petroliferi, anche se il caso non è per niente allarmante. Non allarma perché la dimensione degli scontri è ridotta a scaramucce e i bombardamenti di cui si ha notizia sono relativi a due o tre bombe sganciate nel nulla nel territorio del Sud. Allarma ancora meno i mercati, visto che il Sud ha chiuso i rubinetti del suo export attraverso gli oleodotti del Nord già da qualche tempo e quindi anche se dovessero scoppiare dei combattimenti l’esportazione non potrebbe scendere sotto lo zero attuale.

Nord e Sud discutono della tariffa per il passaggio del petrolio sudista attraverso gli oleodotti del Nord, che pretende una cifra molto più alta di quella di mercato e che di fronte all’offerta del Sud di una cifra molto più bassa di quella di mercato aveva cominciato a sequestrare parte del petrolio a saldo. Ora il governo del Sud, che non ha sbocchi al mare, favoleggia di oleodotti attraverso l’Etiopia e Gibuti o il Kenya e sembra che lo faccia per tirare sul prezzo, ma non è escluso che il fine ultimo sia proprio quello di una completa rottura con Khartum. Circostanze che non possono che inquietare gli acquirenti del petrolio sudanese, ma pare che nemmeno la visita degli onorevoli clienti cinesi abbia scosso il premier Salva Kir dalla sua determinazione. Di sicuro ci sono le dichiarazioni dei due paesi, che ai proclami roboanti accompagnano sempre il rifiuto dell’idea di una guerra con gli ex connazionali e rovesciano sull’avversario la responsabilità di aver cominciato le ostilità.

Il confronto contro il Nord può sicuramente servire da collante patriottico in un paese che ha approvato l’indipendenza al gran completo, ma resta da vedere se e quanta credibilità residua conservi il governo all’interno del neonato paese. In Sud Sudan operano numerosi gruppi armati ed è bastata una faida scoppiata nella regione del Jonglei a provocare più di mille morti e produrre la fuga di decine di migliaia di persone dalle loro case, numeri per i quali di solito si parla di guerra e di stragi, anche se vengono ridotti a questioni tra pastori. Un massacro che fa impallidire qualsiasi scontro con il Nord, che si è consumato tra il gruppo dei Murle e quello dei Lou-Nuer ed progredito una preoccupante escalation fino che questi ultimi hanno creato e schierato il loro “l’Esercito Bianco”, un gruppo di giovani combattenti bene armati che ha fatto strage tra i Murle costringendoli alla fuga dalle loro case.

I due gruppi si rinfacciano l’accusa di razzie durante le quali vengono sottratti animali, donne e bambini e fino a che i rapiti non torneranno a casa si potrà contare su un seguito del conflitto. Peraltro alimentato da personalità vicine al partito di governo, che hanno fornito le armi all’Esercito Bianco e dai componenti della diaspora Sud Sudanese, che negli anni della guerra civile è stato robusta e che ora vorrebbe avere voce in capitolo sul futuro del paese o almeno su quello delle regioni d’origine.

Scontri che proprio all’interno della diaspora sono destinati a seminare sconforto, perché se c’è qualcosa a cui non vogliono rinunciare i sudanesi scappati nei decenni scorsi, è la relativa sicurezza per la propria incolumità fisica che hanno conquistato lontano dal paese natio. Ma non solo sconforto, la notizia dei recenti scontri potrebbe anche fornire il motivo necessario a una corte israeliana per sospendere o annullare il discusso accordo con il quale Netanyahu ha convenuto con Salva Kir il rimpatrio forzato di circa 1500 Sud-sudanesi che hanno cercato e trovato asilo in Israele, visto che “ormai c’è la pace e non corrono più alcun rischio”. Molti dei sudanesi interessati non sono d’accordo, ma Netanyahu spera tanto di toglierseli dai piedi per guadagnare punti agli occhi di una destra che ha  mostrato insofferenza e ostilità per gli immigrati di colore.

Nei due Sudan la situazione resta quindi simile e tendente al peggio e non è per niente chiaro in quali esiti positivi si possa sperare, perché le alternative alle due compagini governative non ci sono e perché è chiaro che fino a che saranno in carica due esecutivi del genere il problema non sarà tanto la guerra con i rivali, quanto la sicurezza e il rispetto dei diritti umani e civili da parte delle rispettive amministrazioni, che fino ad oggi in tema di abusi e di violenze non si sono fatti mancare nulla.

 

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