Tempesta perfetta su Israele

Posted on 17 gennaio 2012

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Anche in Giornalettismo.

L’annuncio dell’uccisione di uno scienziato iraniano, impegnato nel discusso programma atomico del paese, è stato accolto con malcelata soddisfazione in Israele e in genere sottovalutato dai media in giro per il mondo, ma in pochi giorni si è rivelato un incidente capace di catalizzare su Israele l’ira degli alleati più fidati, nonché pochissimi a fronte di un isolamento internazionale sempre più pesante.

L’Iran ha reagito all’attentato accusando gli Stati Uniti, che però si sono chiamati fuori con singolare veemenza, segno che l’egocentrismo e il decidere in autonomia del governo israeliano hanno stancato molti a Washington.
Ha aperto le danze Foreign Policy, citando fonti della CIA che hanno accusato Israele di aver finanziato gli estremisti sunniti di Jundallah per compiere attentati in Iran. Si tratta di una formazione d’ispirazione qaedista che ha i suoi luoghi d’elezione a cavallo della frontiera del Pakistan, dove è pochissimo gradita al governo. Formazione che è considerata un’organizzazione terrorista sia da Teheran che dalla comunità internazionale, Stati Uniti compresi.
Che non hanno gradito che gli agenti israeliani si spacciassero per americani nei contatti con l’organizzazione, espediente utile a superare l’odio per Israele di Jundallah, ma anche a convincere Teheran del coinvolgimento di Washington una volta ottenute le confessioni di alcuni affiliati.

Il giorno dopo è stata la volta di Time Magazine, che ha rivelato come a uccidere gli scienziati abbia provveduto il Mossad, grazie alla collaborazione con gli esuli del MEK. Se Jundallah ha un minimo radicamento territoriale su base regionale, il MEK rappresenta invece un avanzo della guerra fredda e più precisamente dei comunisti iraniani massacrati da Khomeini dopo la rivoluzione.

Fuggiti all’estero in massa, molti avevano trovato rifugio in Iraq e in seguito sostennero Saddam nella sua aggressione all’Iran, guadagnandosi con questo fama eterna di traditori. Quel che rimane è un’associazione di esuli, iscritta nell’elenco internazionale delle organizzazioni terroriste sin dagli anni ’70, dominata da una “presidentessa a vita” che dice di rappresentare l’opposizione iraniana. Rappresenta invece al più l’autorità del marito, ormai impresentabile, su un gruppo di esuli che dopo un’opportuna “svolta capitalista” campa da anni facendo da sponda alla propaganda contro il proprio paese.

Ancora un giorno ed ecco il Sunday Times, che aggiunge carne al fuoco e anche la responsabilità israeliana per un attentato esplosivo vicino a uno stabilimento nucleare. Una gragnola di articoli che puntano il dito su Israele, ai quali si sono aggiunte dichiarazioni come quella del britannico Clegg, che ha definito la colonizzazione israeliana un “deliberato vandalismo” del processo di pace e persino il clamoroso e repentino annullamento di una grande esercitazione militare congiunta prevista tra Israele e Stati Uniti.

A Tel Aviv e a Gerusalemme hanno capito e le reazioni sono state estremamente caute, molti si sono affrettati a dichiarare che per gli Stati Uniti è anno di presidenziali e quindi c’è da capirli, altri si sono interrogati sulla natura e significato di questi evidenti e rumorosi messaggi, che sicuramente porteranno a feroci discussioni interne sulla gestione di una serie d’operazioni che si stanno rivelando un disastro, visto che espongono Israele come stato terrorista senza aver ottenuto tangibili vantaggi strategici.

Non è difficile immaginare che se a saltare in aria fossero stati scienziati attorno a Los Alamos, il mondo fremerebbe d’indignazione ed è evidente che legittimare l’uso del terrorismo è un autogol impossibile per chi ha promosso dieci anni di War on Terror. Ma anche se molti commentatori continuano a conservare un grande favore per Israele e arrivano a sostenere la tesi di una Israele “costretta” a comportarsi così, è evidente che non si può dire che Israele è “costretta” e i suoi nemici non lo sono, così com’è inutile affermare, come ha fatto il nostro ministro degli Esteri Giulio Terzi, che le atomiche d’Israele sono “buone. Se dovesse passare per buona un’impostazione del genere, il diritto internazionale si può stracciare fin da ora.


Netanyahu si è sicuramente preso troppe licenze e troppe volte ha ignorato i rilievi e gli auspici provenienti da Washington, non ha saputo inoltre limitare l’aggressività e le offese che molti suoi alleati nel governo hanno rivolto ad Obama e agli USA, tanto che per gli israeliani più fanatici è diventato normale parlare del presidente americano come di un anti-israeliano. Non che l’amministrazione Bush ricevesse molto rispetto, l’operazione con Jundallah si è svolta negli anni di Bush e sotto il naso della CIA, sfacciata e impunita. Oggi questa arroganza non è più gradita e in Israele lo hanno capito subito, tanto che il ministro degli esteri Lieberman non ha fiatato e persino i freak della destra ultra-religiosa si sono occupati d’altro.

Sembra chiaro che la conduzione militaresca d’Israele si stia scontrando contro limiti oggettivi e la pazienza di Washington, che oggi non può certo tollerare quanto tollerava Bush in piena War on Terror. Altrettanto chiaro è che nel rapporto d’amorosi sensi tra i due paesi è Washington ad avere l’ultima parola e che Israele non ha licenza illimitata d’agire in libertà.

Ancora meno se poi finisce nei guai, persino la guerra cibernetica, scatenata attraverso un attacco informatico ai computer delle centrali nucleari iraniane, si è rivelata un boomerang, ispirando attacchi di segno contrario che hanno spento i computer della borsa israeliana e della compagnia aerea El Al, provocando enormi danni economici e diffondendo un brivido d’inquietudine alle altre borse e alle altre industrie in giro per il mondo.

Gli Stati Uniti restano fermi sulla linea delle sanzioni, nonostante gli evidenti tentativi di israeliani e sauditi (documentati dai cable pubblicati da Wikileaks) di spingere gli americani alla guerra contro i persiani. Guerra che però non è mai sembrata veramente nei piani degli Stati Uniti e c’è da immaginare che lo sia ancora di meno per l’America di Obama. Gli iraniani per conto loro non possono che resistere alle provocazioni incassandole e provare la strada della giustizia internazionale, visto che non dispongono della forza militare per imporre le proprie ragioni.

Tutta questa attività israeliana rafforza il regime iraniano e indebolisce l’opposizione interna, innescando un loop positivo per i rispettivi governi, che possono così mobilitare i due elettorati contro la minaccia nemica, per quanto improbabile, distraendoli dall’evidente insufficienza di esecutivi di una pochezza impressionante.

L’arroganza israeliana nell’ignorare il diritto internazionale e ogni accordo preso, manifesta nella furiosa colonizzazione della West Bank, sembra ora aver raggiunto un limite oltre il quale il patrono americano non è disposto ad andare. Se si considera come gran parte della baldanza israeliana sia fondata sulla protezione americana in Consiglio di Sicurezza e sui contributi americani alla difesa israeliana, si capisce che l’immediato cambio di tono a Gerusalemme significa che il messaggio è arrivato e che ha immediatamente ispirato prudenza.