La resistenza russa è punk.
I Cosacchi hanno promesso che vigileranno sulle chiese e chiedono che le femmine indiavolate e blasfeme siano affidate al giudizio dei credenti. Il potere della chiesa è tale che sacerdoti ortodossi entrano nei negozi e nei supermercati e fanno la spesa senza pagare mentre fiumi di denaro vanno ad arricchire le casse della chiesa e di selezionati credenti.
La chiesa ortodossa partecipa indubbiamente alla grande razzia delle risorse della Russia e le sono bastati pochi decenni per ritornare ad ottenere una presa sul potere temporale tanto simile a quella dell’epoca zarista da sembrarne un’amara parodia. Parodia amara perché in effetti non c’è niente da ridere e perché il volto della chiesa russa è quello arcigno di una predicazione in linea con i cristianesimi di retroguardia, che non ha pudore a pronunciare parole terribili e a supportare moralmente i crimini peggiori.
I cosacchi citati sopra, ad esempio, sono gli stessi che non più tardi di un mese fa si offrivano come volontari per formare “squadre del vizio”, che dovrebbero avere il compito di far rispettare un controverso divieto di “propaganda omosessuale”, una genialata che non è stata partorita a Teheran, ma a metà strada tra il consiglio comunale San Pietroburgo e il patriarcato ortodosso. Alla chiesa di Mosca non piacciono gli omosessuali e non perde occasione per negare loro agibilità e legittimazione sociale, proprio come quella cattolica.
L’appoggio del patriarcato al partito di Putin ha l’aspetto di una solida relazione d’affari. La chiesa ortodossa chiede e Putin concede, ottenendo in cambio il massiccio apporto elettorale dei credenti e qualsiasi legittimazione morale gli possa servire, se domani dovesse aver bisogno di sgozzare degli infanti sulla Piazza Rossa, ci sono buone probabilità che il patriarcato russo finirebbe per farfugliare qualcosa sui bambini peccatori. Un rapporto chiaro, impostato sulla reciproca convenienza e del quale Putin sembra tenere con mano sicura le redini, insieme ai cordoni della borsa e dei privilegi.
Il problema è che all’inevitabile sparizione di Putin, prima o poi, il potere del patriarcato difficilmente resterà intaccato in maniera drastica e incisiva e molto probabilmente non lo sarà per niente. Un lascito ingombrante a carico dei suoi successori che si ritroveranno la chiesa come chiave di volta della politica russa, in dittatura come in democrazia. Che alla chiesa non sembra affatto interessare, dopo l’inferno del comunismo si gode questo paradiso immeritato e ingrassa. Le immagini del sacerdote ortodosso che entra in un supermercato di quelli lussuosi, riempie cinque borse di alcolici e articoli costosi e se ne va senza pagare e senza essere disturbato dal personale o da altri, sono state girate dal collettivo Voina, che ci ha messo anche l’attore che impersonava il prete e che ha realizzato la performance. Un documento che testimonia un fenomeno che ha ben pochi paragoni al mondo, dove ci sono ben pochi paesi che concedono licenza di razzia ai sacerdoti.
Voina è il nome di un collettivo artistico che conta oltre duecento artisti e un numero imprecisato e imprecisabile di simpatizzanti che mette in scena originali performance urbane per denunciare il potere e le sue evidenti contraddizioni. Una boccata d’ossigeno in un paese che insieme al ritorno del governo dell’uomo forte e dello zombie clericale, soffre anche il dilagare di un conformismo prodotto dal ripiegamento dei russi nel privato, in attesa forse di tempi migliori. A quelli di Voina non è bastato dichiararsi un collettivo patriottico per sfuggire alle ire di Putin e alle attenzioni dei servizi di sicurezza, ai quali piacciono sì i patrioti, ma non quelli anarchici che disegnano enormi falli davanti alla sede di quello che fu il KGB e ancora meno quelli ribaltano le auto della polizia nel corso di una performance contro l’autoritarismo putiniano. Inutile poi dire che il richiamo agli eroi anarchici antizaristi che predicavano il regicidio sia visto da Putin come un’istigazione a colpire la sua pur protettissima persona.
Le rudi maniere con le quali sono stati prelevati dalle loro case due degli esponenti più in vista del collettivo, incappucciati e rimossi dalle loro case insieme al loro contenuto e subito ridotti in isolamento, spiegano bene il livello d’irritazione del regime, che infatti li accusa di minacciare allo stato. Non si può dire tuttavia essere sicuri che Putin sia particolarmente impressionato dalle performance del gruppo, in fondo dopo la scontata vittoria alle elezioni sono centinaia i russi che sono stati arrestati per festeggiare altri sei anni durante i quali varrà solo la sua volontà o quasi.
Anche in alcuni paesi democratici si sono viste iper-reazioni del genere a proteste che non avevano la minima “velleità di sovvertire il sistema” e neppure la condanna a sette anni che rischiano gli attivisti di Voina pare eccessiva, se confrontata alle richieste di certi pubblici ministeri a carico di qualche manifestante italiano colpevole solo di aver rotto le scatole. O ancora alla possibile condanna alla pena capitale per uno come Bradley Manning negli Stati Uniti. Considerazioni che comunque non sminuiscono affatto la durezza del regime putiniano.
Allo stesso modo le Pussy Riot, gruppo musicale punk e femminista molto attivo e provocatorio nel combinare arte e politica, avrebbero rischiato grosso anche in altri paesi troppo cristiani o troppo musulmani o indù, se avessero deciso d’improvvisare un concerto non invitate nel tempio principale di quelle religioni, come hanno fatto nella cattedrale di San Basilio. Che per di più hanno riempito di liriche che non hanno mancato di apparire blasfeme agli occhi dei fedeli. Anche loro e le loro compagne del collettivo rischiano una condanna a sette anni di carcere, tre di loro sono state arrestate e due sono in sciopero della fame. Come fresche madri avrebbero diritto ad attendere il processo vicino ai figli, ma non è stato loro concesso.
Probabilmente in alcuni paesi le avrebbero anche fatte squartare, tirate da quattro cavalli o cammelli, ma c’è ben poco d’ironico in performance tanto estreme da esporre i performer al martirio e supportate da motivazioni serie e drammatiche, facilmente rintracciabili nella critica che propongono. Il ritorno del medioevo non ha risparmiato un solo angolo della società russa, come testimonia il crollo dell’aspettativa di vita, che al tramonto dell’Unione Sovietica era più o meno allineata a quelle dei paesi occidentali e che dopo Gorbaciov è precipitata a livelli africani, sotto i sessant’anni.
Stessa fine ha fatto la condizione femminile, con la donna russa che ha visto il peggiorare della sua condizione sociale accompagnato da aumento della domanda di cure familiari, funzionando da ammortizzatore sociale in un paese nel quale lo stato sociale è velocemente evaporato e l’homo sovieticus ha lasciato il passo a un maschilismo brutale, spesso declinato in una realtà occupata da ingombranti e spesso violenti compagni di vita travolti dall’alcolismo, altra atavica piaga russa di ritorno. Il dilagare della criminalità organizzata non ha aiutato, estendendo ancora di più la platea di singoli e organizzazioni impegnate nello sfruttamento e nella sottomissione della donna, sempre benedetta dalla chiesa.
Un maschilismo che il virile Putin ha interpretato a modo suo, condannando all’invisibilità sociale sua moglie e le due figlie, delle quali non esistono nemmeno immagini recenti. Un record assoluto per un capo di governo, che nemmeno Stalin. Se della moglie si mormora che sia ospite di un monastero dal quale è prelevata nelle rare occasioni ufficiali nelle quali lui decide d’esibirla, vuol dire che c’è qualcosa di più della semplice tutela della privacy che aleggia sulla famiglia di Putin e sulle sue presunte amanti, anche al netto dell’inquietante terrore che il ri-presidente russo esercita sui russi che lavorano nel campo dei media.
Se un noto editorialista ortodosso ha definito la performance delle Pussy Riot in San Basilio come “una buffonata come ne inscenavano ai tempi di Pietro il Grande” non è una coincidenza e agli osservatori stranieri viene facile concludere che il produrre performance alle quali seguono inevitabilmente conseguenze tanto estreme per i loro interpreti e lo sfidare un potere dotato di un potenziale intimidatorio come quello di Putin armati di nulla, non può essere spacciato per una carnevalata. Anche perché in mezzo a tanto sfascio dello stato, le carceri russe non sono migliorate significativamente dai tempi dei soviet.
Altri sei lunghi anni di Putin attendono i russi e le russe, che in molti attingono ispirazione dalla grande tradizione russa di lotta anti-autoritaria e dalle esperienze occidentali contemporanee per costruire ed esprimere il dissenso contro un regime che appare più determinato che mai nello schiacciare qualsiasi focolaio di dissenso organizzato. Non sarebbe la prima volta nella storia, se i performer di oggi diventassero degli eroi della Russia in un futuro più lontano, ma per ora si devono accontentare di un presente da martiri e di considerare le condanne che dovranno scontare come un investimento a fondo perduto, nella speranza di un futuro migliore.
Pubblicato in Giornalettismo
natuphil
7 marzo 2012
Credo che il succo dell’articolo sia che non ti piace Putin. L’hai scritto bene (sai scrivere) ma in modo prolisso.
Se per caso conosci la Russia, però, non sei stato bravo a mostrare tale conoscenza.
“L’inferno del comunismo”, dici, riferendo credo al periodo pre-1989.
Ho qualche conoscenza di quel periodo e non lo definirei un inferno al limite un purgatorio, o più semplicemente un limbo tra il periodo zarista e quello liberista.
L’inferno in Russia l’ho conosciuto negli anni ’90 e fu il periodo di Yeltsin: quello in cui tutto era stato venduto agli oligarchi e alle company occidentali, in cui la mafia imperversava e le divergenze si risolvevano con le armi o con il denaro. L’inferno in Russia fu l’arrivo del liberismo occidentale e Putin li ha tirati fuori. Per questo i partiti nazionalisti totalizzano il 90% dei voti e Putin da solo fa il 60%.
Loro hanno visto l’inferno e non ci vogliono tornare.
E qui si vede la disfatta dell’occidente: milioni di dollari investiti in opposizioni farlocche, movimenti colorati e fighe al vento che vanno bene solo per riempire le pagine della stampa di regime occidentale. Non ti unire al coro dei servi, per favore.
E sia ben chiaro che la Russia è difficilmente compatibile con la democrazia. La democrazia nacque su una geografia frastagliata di isolette con comunicazioni faticose, non è adatta alla Grande Madre Russia. Qualsiasi forma di governo assomiglierà molto ad un impero su tale territorio.
E non sottovalutare la Chiesa. Uno dei più grandi errori del comunismo russo fu il tentativo di abolire la religione. Ma la gente ricreava in continuazione, eventualmente di nascosto, cerimonie religiose. Non di solo pane vive l’uomo, diceva un saggio ebreo. E l’astuto Putin preferisce avere la religione come alleata, non come nemica.
Cerca di imparare a pensare in russo. Capirai molte cose.
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mazzetta
7 marzo 2012
l’inferno del comunismo è una citazione, il crollo dell’aspettativa di vita è abbastanza indicativo di come in seguito per molti russi sia andata anche peggio
per il resto i giudizi d’incompatibilità di un paese con la democrazia mi sembrano sciocchezze, di quelle diffuse da chi è contento di quello che c’è e non ha la voglia d’immaginarsi qualcosa di meglio
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Zadig
13 marzo 2012
A ty otkuda tut vzials’ia?
Certo, la Russia e la democrazie sono incompatibili. Putin è l’unica soluzione, pravda?
Il fatto che Jeltsin fosse un voltagabbana opportunista e alcoolizzato non giustifica il fatto che milioni di persone non siano lasciate libere di decidere, come dovrebbero, chi debba guidare il paese.
Se sei razzista e non consideri i russi degni di decidere per il loro destino non stare nemmeno a rispondermi.
L’articolo è benissimo scritto e documentato come al solito.
Ciao,
Zadig
Privet iz devianostykh.
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Aldo C. Marturano
18 giugno 2012
Sono d’accordo con Natuphil salvo qualche punto. Il pensiero di Lenin è stato travisato dopo la sua morte che d’altronde è stata prematura, se si pensa che è stato alla dirigenza e quindi al potere partitico soltanto pochi anni, ma è stato lo scrollone che tutta l’Europa ha avuto quando il suo primo impero assolutista è caduto. La costituzione che allora si formulò fu un esempio di come si potesse organizzare un enorme stato multietnico in una lega di repubbliche indipendenti. Se i popoli turcofoni oggi riescono a trovare delle radici comuni per farsi stato, non è forse dovuto a quei principi che gli slavofoni avevano introdotto in Asia Centrale? E a quale modello ispirarsi dopo il ’45 per costruire le nuove democrazie europee? Giusto alla Costituzione sovietica. Che poi questa carta dei diritti e dei doveri si sia deteriorata e infine abbia portato alla rottura del tempo di Jelzin etc. è un’evoluzione dello stato ex-sovietico che trascina con sé tutti i problemi accumulatisi in mezzo secolo di lotte dei russi. I Russi? E chi sono? Lo stato è multietnico e multiculturale e questa realtà non va mai dimenticata, ma va rispettata.
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