Trump e l’Arabia Saudita, una nuova minaccia globale?

Posted on 11 giugno 2017

1



C’era una volta un Donald Trump che accusava l’Arabia Saudita di aver finanziato gli attacchi dell’Undici Settembre 2001 e c’è oggi un Trump reduce dalla danza con le spade alla corte dei Saud ed entusiasta cheerleader di un regime che dopo lo Yemen minaccia ora il Qatar e con esso il difficile equilibrio che regge le sorti dei paesi che affacciano sul Golfo. Dall’Arabia Saudita Trump è tornato con l’annuncio di un accordo da 110 miliardi di dollari per la fornitura d’armamenti ai sauditi, annuncio che poi si è rivelato falso, si tratta infatti di una cifra messa insieme cumulando il totale di contratti già siglati in passato, preventivi e proposte, nessun accordo in tal senso risulta essere stato firmato durante la visita di Trump o comunque sottoposto alla dovuta attenzione degli organi competenti. I Saud hanno comprato solo bombe e munizioni utili a continuare la fallimentare aggressione allo Yemen, e c’è anche da considerare che le loro finanze non sono esattamente in salute, tanto che stanno introducendo per la prima volta l’IVA e altre tasse.

Pochi giorni dopo la visita di Trump i Saud hanno aperto le ostilità contro la famiglia al Thani, che occupa il trono del Qatar e che mostra di non subire le mire egemoniche dei sauditi sui paesi del Golfo e che ha soprattutto l’enorme colpa di gestire e finanziare al Jazeera e d’ospitare altri canali troppo irriverenti nei confronti dei Saud, abituati a media e opinioni pubbliche addomesticate con la frusta, come subito ha ricordato il decreto che ha accompagnato le ostilità verso il Qatar, con il quale i Saud e gli sceicchi degli Emirati hanno promesso 15 anni di galera e svariate frustate a chi esprima dubbi o critiche all’azione saudita o simpatia per la posizione del Qatar, scatenando così una corsa a cancellare tweet e messaggi lasciati in rete da quegli incoscienti che ancora osano esprimere liberamente le proprie opinioni dissonanti attraverso le reti sociali.

TRUMP CON I SAUD ALLO SBARAGLIO –

Un problema che non affligge Trump, il quale è sicuramente rimasto sorpreso dall’escalation dei Saud nei confronti del Qatar e che con lo stesso grado di probabilità non ha capito dimensione e conseguenze di quanto stava accadendo e, anche se può sembrare clamoroso, non ha capito nemmeno che paese fosse questo Qatar contro il quale si sono scatenati i Saud. Assecondando il suo istinto, Trump si è infatti lanciato solitario su Twitter rivendicando come un suo personale successo l’impennata saudita e offendendo a morte l’altrettanto alleato che siede sul trono del Qatar. Che aveva incontrato amichevolmente proprio durante la visita in Arabia Saudita pochi giorni fa, quando si è riunito con i sovrani del Golfo festeggiando un rinnovato impulso contro il terrorismo, ha detto lui. Ma forse se n’era già dimenticato quando ha scritto questi tweet, come sicuramente non ha capito che i Saud si sono sentiti autorizzati a regolare i conti con il vicino proprio dall’entusiasmo che lui stesso ha manifestato nei confronti del regime. L’han preso come un via libera.

Il tutto va apprezzato ricordando che in quanto a finanziamenti per i terroristi l’Arabia Saudita non è seconda a nessuno e che tra i beneficiati dai sauditi ci sono i peggiori tra i peggiori e migliaia di madrasse sparse nel mondo, nelle quali sono allevati ai principi dell’intransigenza wahabita i futuri estremisti islamici. Non per niente lo stile nell’amministrare la giustizia dei Saud è lo stesso sposato dall’ISIS, frustate e decapitazioni comprese, così com’è simile la condizione della donna nelle rispettive società. È un dato incontestabile che dal 2001 la condizione della donna abbia fatto molti più progressi in Afghanistan che in Arabia Saudita, dov’è rimasta simile a quella gradita ai talibani e dove non è progredita d’un millimetro, altro che aver segnato «“encouraging” progress in empowering women», com’è andata a dire Ivanka Trump nel corso della visita presidenziale.

Ai tweet di Trump è seguito un aggiustamento del tiro da parte del Pentagono, che in Qatar ha una enorme base dalla quale controlla il Golfo e il traffico aereo di 20 paesi limitrofi e che ha espresso fiducia e apprezzamento nei confronti di Doha. Dopo di che, tornando sul piano dell’ufficialità e alla realtà, Trump è tornato a manifestarsi esprimendo apprezzamento per tutte le parti coinvolte e proponendosi come mediatore per risolvere la crisi. Inversione a 180° tanto rapida quanto opportuna, appoggiare i Saud in questa avventura vorrebbe dire seminare il panico nel Golfo e alienarsi ancora di più altri alleati che hanno basi e investimenti in Qatar, dalla Francia che è in prima fila tra chi fa affari con Doha, alla Turchia di Erdogan, che con i Saud è in rotta da tempo e che ha subito votato in parlamento l’invio di 5.000 uomini per difendere lo sceicco. Per l’Erdogan che sta proponendo un revival dei fasti ottomani per proporsi come sultano-presidente, questa è un’occasione irresistibile per ricordare quando la Mecca era sotto controllo turco e queste cose non succedevano. È facile che a Riad qualcuno sia passato in fretta dall’entusiasmo allo sconforto, un po’ come capita ai tifosi delle squadre che segnano il primo punto e poi perdono di brutto.

Una farsa, una clamorosa manifestazione d’incompetenza, superficialità e avventurismo che ancora una volta ha esposto l’ignoranza da parte di Trump delle più rilevanti questioni internazionali, ma anche degli stessi interessi americani, che il nuovo presidente mette in pericolo ogni volta che apre bocca senza prima chiedere consiglio.

Senza considerare la mancanza di lucidità che gli ha fatto dimenticare il cordiale incontro con lo sceicco del Qatar appena due settimane addietro, sarà forse questo insieme di cose che ha spinto lo sceicco a rifiutare la mediazione americana e l’invito alla Casa Bianca. Sarà anche per questo che poi Trump ha smesso di commentare la crisi su Twitter e si è dedicato ad altro.

Lo sceicco del Qatar e Trump si scambiano cordialità a Riad.

L’IRAN, L’ETERNO CAPRO ESPIATORIO –

In un altro caso, quasi contemporaneo, l’ufficialità non è però stata una barriera sufficiente a evitare che l’amministrazione finisse per offendere gravemente gli iraniani proprio con il messaggio di «solidarietà» per l’attacco terroristico a Teheran, l’altro evento che ha scosso la stessa giornata in Medio Oriente e dintorni. La reazione ufficiale della Casa Bianca si è infatti tradotta in un asciutto pensiero per le vittime seguito dalla frase: «Sottolineiamo che gli stati che sponsorizzano il terrorismo rischiano di rimanere vittime del male che promuovono». Ad aggiungere insulto all’offesa, il senato americano ha votato nelle stesse ore una legge che dovrebbe servire a velocizzare la messa in campo di nuove sanzioni nei confronti dell’Iran, invertendo così ufficialmente il cammino di avvicinamento e appeasement inaugurato da Obama.

Dichiarazione molto inopportuna, offensiva e del tutto ridicola se viene dall’amministrazione del paese che ha allevato in funzione antisovietica i qaedisti che poi l’hanno hanno colpito l’Undici Settembre, ma ancora più fuori posto considerando che anche gli autori dei freschi attacchi di Manchester e Londra sono stati introdotti all’uso delle armi e degli esplosivi dagli angloamericani che li hanno usati prima contro Gheddafi e poi contro Assad. Coi bei risultati che conosciamo. ‘amministrazione Trump è rimasta nel solco del discorso tenuto in Arabia Saudita, nel quale aveva indicato l’Iran come fonte di tutti i mali e maggior finanziatore al mondo del terrorismo, ma una dichiarazione del genere in un contesto del genere è del tutto inaccettabile, sia nel contenuto che nei toni. Per rendersene conto basta paragonare il messaggio della Casa Bianca con quello del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove pure siedono gli Stati Uniti con il potere di veto. Circostanza che significa che anche questo messaggio, almeno in teoria, esprime una posizione condivisa dall’amministrazione Trump.

IL PULPITO SAUDITA E LE ACCUSE AL QATAR –

tornando all’attacco al Qatar, ancora diversa è stata la dichiarazione del Segretario di Stato Tillerson, la vera e meditata reazione ufficiale, con la quale gli Stati Uniti chiedono al Qatar di aumentare la velocità dei «progressi» compiuti nell’allontanare dal paese presenze sgradite e tagliare i fondi a certi gruppi, ma ha anche invitato il gruppo di alleati ad alleggerire il blocco sul Qatar, che ha conseguenze umanitarie per moltissime persone e famiglie, e che crea problemi agli Stati Uniti e ad altri paesi impegnati nella lotta al terrorismo e in genere provoca conseguenza anche agli affari di altri paesi. Del Qatar dice anche che ha una storia come sponsor di gruppi che hanno coperto tutto lo spettro dell’espressione politica, dall’attivismo alla violenza, ma la dichiarazione si apre ricordando che gli Stati Uniti s’aspettano di vedere un’apertura degli spazi d’espressione e di agibilità politica per critici e oppositori, senza i quali le divergenze politiche finiscono inevitabilmente per nutrire gli estremismi. Un riferimento evidente alla draconiana legge contro chi non parla male del Qatar e all’ancora impossibile esistenza di una parvenza di dissenso in Egitto, Bahrein, Emirati e Arabia Saudita, citati esplicitamente. Considerazione che comunque si può estendere al Qatar dove resta comunque pericoloso esprimere opinioni non allineate a quelle della monarchia. Nel complesso più una tirata d’orecchie a sauditi e alleati che al Qatar, ma ai Saud è bastata la frase sulla storia del Qatar come finanziatore del terrorismo, sul resto i media sauditi hanno sorvolato. Messo questo punto, Trump è tornato a parlare della faccenda dicendo che era stato informato dai paesi che hanno agito contro il Qatar (s’è già visto che pare proprio di no) e che l’azione è stata «dura, ma necessaria» perché il Qatar è un «finanziatore di terrorismo a UN livello molto alto». Un intervento che in parte mina la dichiarazione di Tillerson, al quale è seguita una «interpretazione autentica» ad assicurarsi che i sauditi non pensino che a Washington stia bene di veder menomata la loro importante base con vista sul Golfo. Non s’era mai visto che Presidente e Dipartimento di Stato parlassero due lingue diverse, ma i sauditi commetterebbero un grosso errore se puntassero sull’interpretazione presidenziale e dessero troppo valore all’improvvisata con la quale Trump ha cercato d’aggiustare la sua pessima figura agli occhi di quelli che ancora credono in lui. Per ora pare che il messaggio americano sia arrivato nella sua versione ufficiale, tanto che s’è perso nel nulla l’ultimatum lanciato dai sauditi, senza peraltro specificare bene che cosa sarebbe successo al suo scadere e sono invece spuntate misure lenitive per gli effetti del blocco.

IL PRESIDENTE SBAGLIATO NEL MOMENTO SBAGLIATO –

Un presidente americano che agisce alla cieca su basi umorali e privo del minimo autocontrollo sarebbe già una grave minaccia globale, se l’incombere della cronaca non stesse avvicinando pericolosamente il momento della definitiva sconfitta sul campo dell’ISIS, momento che porrà tutti i numerosi attori presenti militarmente in Siria, americani, alleati occidentali, turchi, russi, iraniani, libanesi, curdi e milizie assortite, di fronte al dilemma del che fare una volta che l’ISIS non ci sarà più e che ci sarà da decidere il futuro della Siria. una decisione mai come oggi lontana dalla disponibilità dei siriani. Se a questo si aggiunge una monarchia feudale come quella dei Saud che appare sull’orlo di una crisi di nervi e frustrata dai ripetuti insuccessi nel ruolo di potenza regionale, la miscela diventa ancora più esplosiva e s’impenna il timore per l’esplosione di più di un nuovo conflitto armato nella regione, già abbastanza travagliata.

La frustrazione dei Saud è evidente come sono evidenti i problemi provocati con il passaggio del testimone dalla generazione dei figli del fondatore del regno a quella dei nipoti. Il fallimento in Siria è forse ancora imputabile ai padri, ma i ripetuti fallimenti in Yemen e negli altri paesi limitrofi ai quali i Saud hanno provato ad imporsi sono sicuramente da imputare alle nuove leve, che hanno inaugurato una politica tanto più muscolare, quanto al momento utile solo a raccogliere una serie di cocenti delusioni. Frustrazione evidente anche nella mossa contro il Qatar, già in passato oggetto delle ire dei Saud e accusato di finanziare il «terrorismo» inteso come il finanziamento di fazioni sgradite, d’essere troppo vicino all’Iran con il quale condivide lo sfruttamento d’un giacimento di gas, ma soprattutto di sponsorizzare e proteggere media che osano criticare la monarchia saudita. Il che, fino a che tutto andava bene era forse sopportabile, ma ora che all’orizzonte si stagliano solo le macerie di quelle che dovevano essere imprese vincenti, diventa motivo d’irritazione insormontabile e al Jazeera diventa una spina nel fianco da rimuovere. La potenza delle televisione sponsorizzata da Qatar è notevole e non c’è da dubitare del fatto che sia uno strumento nel pieno controllo dello sceicco. E infatti tra le reazioni al blocco promosso dal saudita è subito spuntata la denuncia nei confronti degli Emirati d’aver violato l’embargo in Libia per rifornire il generale Haftar, quello che a Riad immaginano come l’al Sisi libico. Le mani del Qatar sono tutte fuorché pulite quando si parla d’ingerenze in Libia o altrove, ma l’ipocrisia dei sauditi è tanto plateale che l’accusa al Qatar di finanziare i terroristi ha fatto più sorridere che innescare moti di solidarietà, che infatti sono arrivati solo da vassalli e clienti. Silenzio invece dagli alleati occidentali che ne hanno ben donde, a partire  dalla Gran Bretagna, dove il governo conservatore sta insabbiando proprio un rapporto sui finanziamenti che dai sauditi finiscono ai «terroristi» di diversi paesi.

L’AUTOGOL DELL’ARABIA SAUDITA –

Che la reazione dei Saud sia frutto di frustrazione è evidente anche dal motivo scatenante più evidente dell’attacco al Qatar, scaturito dalla pubblicazione di alcune critiche alla politica saudita, critiche poi disconosciute da Doha come opera di misteriosi “hacker” senza grande successo. Un casus belli decisamente debole, posto che l’altra accusa, quella di finanziare il terrorismo è risibile sulle labbra dei Saud e posto che comunque il Qatar ha risposto dicendo che non considera terroristi quelli che finanzia, dai Fratelli Musulmani in giù. La debolezza della posizione saudita è stata evidente anche dalla risposta ottenuta da alleati e clienti fin da subito. Al netto dell’entusiasmo via Twitter di Trump, durato una paio d’ore, con i sauditi si sono schierati convintamente gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e l’Egitto, poi via via e con gradazioni diverse altri paesi come il Ciad, la Giordania, le Maldive uno dei tre governi libici (quello sponsorizzato dai Saud), il governo fantoccio dello Yemen ugualmente sostenuto da Riad, dove soggiorna, e poco più. Notevole è stata soprattutto la diserzione di Kuwait e Oman, che fanno parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) che associa tutti i paesi della Penisola Arabica. La plastica dimostrazione che l’Arabia Saudita non riesce a dominare nemmeno il GCC, che nelle sue aspirazioni dovrebbe divenire in futuro un superstato federato sotto il controllo egemone della potenza saudita. Che però potenza non è, anche se lo vorrebbe essere. Così le accuse dell’Arabia Saudita al Qatar non hanno impressionato nessuno, nemmeno all’interno del GCC.

Allo scarso successo si è subito accompagnata la manifestazione di eventi sicuramente sgraditi ai Saud, come l’invio dei soldati turchi alla frontiera del regno o la corsa a supplire alle fornitura bloccate dai sauditi insieme all’unico confine terrestre, da parte di Oman e Iran. Per di più lo sceicco del Qatar ha ritirato immediatamente gli aerei mandati a dar manforte ai sauditi in Yemen. Se l’idea era quella di allontanare il Qatar dall’Iran, il risultato ottenuto pare per ora di segno contrario. Che la minaccia dei sauditi sia poco credibile e poco condivisa lo testimonia inoltre il prezzo del petrolio, che non ha fatto una piega di fronte all’ipotesi di una confronto tra due campioni nella produzione di gas e petrolio. In teoria il Qatar non avrebbe speranze in un confronto con i sauditi, i cittadini del regno non arrivano a 300.000 e le sue forze armate sono poca cosa anche per quelle saudite, ma la dinastia ha saputo premunirsi offrendo basi sulla strategica penisola a diversi paesi, ovviamente in cambio di protezione. Attaccare il Qatar per i sauditi vorrebbe dire minacciarne gli interessi e sfidare gli accordi militari con il paese ospite.

Il blocco saudita così è stato accompagnato da una furiosa propaganda e poco più, propaganda che ha chiarito ulteriormente come la questione abbia poco a che fare con il terrorismo o l’Iran. Contro il Qatar si sono espressi i media, controllati dal regime, e il clero, che da sempre segue ed esegue i desideri della case regnante, che proprio con i successori del fondatore del wahabismo hanno stretto un patto d’acciaio per il controllo del paese. Non è una guerra di religione quella con il Qatar, non è il confronto con gli sciiti iraniani, ma è diventata anche una faida tra wahabiti, visto che anche in Qatar va forte il salafismo. Una battaglia nella quale il clero saudita si è subito schierato con i Saud «scomunicando» il Qatar e chiedendo persino che la grande moschea di Doha, intitolata al supremo wahabita cambi nome perché sarebbe indegna di portarlo. Il blocco peraltro finirà per procurare più problemi ai molti stranieri che lavorano in Qatar che ai suoi cittadini, anche se l’impossibilità d’andare a far bisboccia negli Emirati potrebbe pesare sull’umore. Basti pensare ai 200.000 egiziani che vi lavorano, che sono quasi quanti i cittadini e che ora dovranno subire le conseguenze del blocco dei voli diretti e di altre iniziative prese dal regime di al Sisi.

LUCE VERDE DA TRUMP? –

Quello che è abbastanza chiaro è che i Saud siano convinti che siano tornati i bei tempi dei (neo)conservatori alla Bush, se non di Reagan. L’entusiasmo mostrato da Trump durante la visita, il ritorno alle vecchie ossessioni anti-iraniane, l’ipotesi d’un ulteriore avvicinamento a Israele sono stati segnali che a Riad hanno letto come un semaforo verde. Sulla precisione di questa lettura c’è però molto da dubitare e lo testimonia anche lo straordinario silenzio osservato in Israele allo scoppio della crisi con il Qatar, politici e media israeliani hanno per lo più ignorato la questione e sembrano aver preso tempo per capire cose stia succedendo esattamente, proprio quello che non ha fatto Trump.

La relazione tra Stati Uniti e Arabia Saudita è sempre stata simbiotica, ma dopo il 2001 è andata in calando anche se da Washington raramente sono partite manifestazioni di sfiducia o di scontento verso i Saud, che anzi nel tempo si sono ritagliati il ruolo di strumento americano nella lotta al terrorismo. Fin dall’esplodere della crisi petrolifera negli anni ’70 i Saud trovarono un accordo per il quale s’impegnarono a investire una parte importante della rendita petrolifera in titoli del Tesoro americano. Ma comprare quantità ingenti del debito americano avrebbe attirato attenzioni e posto questioni, così i sauditi ottennero che il business restasse segreto e per questo furono organizzate aste riservate e dedicate loro e per questo nei registri americani la titolarità di quel debito si perde nella nebbia. Non si quanta parte del debito americano sia nelle mani dei Saud e degli altri sovrani del Golfo ai quali probabilmente fu imposto lo stesso impegno, ma nell’aprile dello scorso anno i sauditi hanno minacciato di vendere 750 miliardi di dollari in buoni del tesoro e altri titoli americani se il Congresso avesse passato la legge che permette di citare i Saud come responsabili per gli attacchi dell’Undici Settembre di fronte ai giudici americani. La legge poi è passata lo stesso, a testimonianza che i tempi d’oro per i sauditi sono ormai lontani, ma poi è arrivato Trump a riaccendere gli entusiasmi d’un tempo, rinverdendo l’ostilità mai sopita dei Repubblicani nei confronti dell’Iran e mostrandosi entusiasta dei Saud.

Le radici dell’insofferenza saudita sono però più antiche e profonde. L’Arabia Saudita e gli sceiccati del Golfo esistono per gentile concessione angloamericana, alla quale è ovviamente corrisposta una grande disponibilità dei beneficiati a lasciarsi «guidare» nel difficile cammino per lo sviluppo delle infrastrutture petrolifere prima e per quello dei rispettivi paesi poi. La moderna politica estera saudita ha cominciato a cercare spazi di manovra indipendente ai tempi della crisi petrolifera e si è poi forgiata negli anni ’70, quando a metà del decennio il regno si è imbarcato nel progetto della «bomba atomica islamica», da contrapporre a quelle «cristiane, ebraiche e Indù» che minacciavano il mondo arabo. un progetto in società con Gheddafi, lo Scià di Persia e il Pakistan, al quale toccherà lo sviluppo della bomba, che alla fine sarà pagato per lo più dai Saud. Ma sarà tra il 1978 e il 1979 che la visione dei Saud comincerà ad assumere la forma attuale. In quegli anni due eventi hanno sconvolto la visione del futuro relativamente rosea che fino ad allora aveva accompagnato la dinastia, più o meno incontestata anche mentre buona parte del mondo arabo era visibilmente scosso da moti di popolo in nome del socialismo. Ancorata saldamente al campo anticomunista e legata a filo doppio agli interessi americani, la monarchia aveva trascorso i primi decenni del dopoguerra a sviluppare l’estrazione del petrolio e a immaginare come godere di una rendita petrolifera che all’inizio si mostrò esuberante per le allora modeste esigenze di un paese per lo più abitato da beduini senza grosse pretese. A sconvolgere la relativa quiete del regno si manifestò la rivoluzione iraniana nel 1978, spaventosa perché vicina e perché capace di determinare la fine di una monarchia, quella iraniana, che aveva radici e legittimità ben più salde e remote di quella saudita.

UNA DINASTIA IMPAURITA E AGGRAPPATA AL POTERE –

A inquietare ancora di più i Saud arrivò l’anno successivo la presa della Grande Moschea della Mecca da parte di un gruppo di giovani virgulti sauditi che rinfacciavano ai Saud d’essersi allontanati dall’ortodossia e dalla purezza wahabita. Erano gli antenati dei qaedisti, ma anche di quell’Islam politico di matrice sunnita che più tardi s’affermerà in molti paesi a maggioranza musulmana. I ribelli chiedevano la destituzione dei Saud, la fine delle forniture di petrolio agli americani e l’espulsione degli stranieri dal regno. I Saud ovviamente non cedettero e risposero con un massacro, portato a termine non dalle truppe del regno, ma dalle forze speciali pachistane con l’assistenza di tre uomini delle forze speciali francesi per l’uso dei gas, tre uomini che si convertirono all’Islam perché alla Mecca non sono ammessi i non fedeli. Dopo due settimane di scontri e d’assedio il tutto si concluse con il massacro dei terroristi e di buona parte degli ostaggi, seguito dall’esecuzione di quanti si erano arresi. In quell’occasione Khomeini denunciò l’attacco come opera del «criminale imperialismo americano e del sionismo internazionale», ma i Saud ci fecero poco caso, anche perché approfittando dell’attacco dei salafiti scoppiò una rivolta nella provincia a maggioranza sciita di al Hasa e già allora i Saud avevano individuato nei sudditi sciiti una fonte di problemi e un possibile cavallo di troia che potrebbe aprire le porte del regno alla rivoluzione khomeinista. Aspirazione che peraltro gli sciiti sauditi non hanno mai manifestato, così come non l’ha dimostrata la popolazione a maggioranza sciita del vicino Bahrein, dove il locale tiranno ha represso la locale primavera araba nel sangue contando sull’assistenza militare saudita e gridando al golpe sostenuto dagli iraniani. Troppa roba per la tranquilla opposizione del Bahrein, che da qualche anno se la passa malissimo tra carcere e torture. Abbastanza naturale e comprensibile quindi l’insofferenza nei confronti del Qatar, che solo nel 1995 ha esordito nei panni di maggiore esportatore mondiale di gas e che da allora, grazie a quella ricchezza, si è sempre più emancipato dalla tutela saudita ritagliandosi un ruolo da protagonista nella regione e oltre.

All’avvento di Reagan i Saud trovarono quindi naturale schierarsi con Saddam, che nel 1980 aggredì la giovane repubblica teocratica inaugurando una guerra sanguinosa quanto inutile che durerà otto anni, lasciando alla fine i due paesi in ginocchio e centinaia di migliaia di morti sui due fronti. Una guerra durante la quale Saddam impiegò  armi chimiche fornite dall’Occidente mentre gli alleati americani si impegnavano a ostacolare le indagini e impedire all’ONU di  mettere il dittatore sul banco degli imputati. Ma gli americani allo stesso tempo si adoperavano per fornire armi anche all’Iran attraverso le macchinazioni poi venute alla luce insieme allo scandalo Iran-Contras, dopo 8 anni la guerra finì con un tragico pareggio. Più complesso si rivelò rimediare alle pulsioni salafite emerse con l’attacco alla Grande Moschea e all’ostilità alla dinastia che attraversava evidente il clero, i militari e parte dei sudditi. I sauditi scelsero di spendere con munificenza in nome del Profeta, ingrassando il clero parassita a condizione che sia fedele, migliorando la qualità della vita dei sudditi e proponendosi come esempio di virtù, cambiando addirittura il titolo del monarca da re a Custode delle due Sacre Moschee, oltre ovviamente ad aumentare la repressione e a stabilire pene draconiane per le manifestazioni di dissenso. Quelle che oggi procurano una decina d’anni di carcere e frustate quanto basta a quegli sventurati che magari affidano a twitter un’opinione sgradita. A testimoniare questo rinnovato impeto religioso i Saud misero anche la ristrutturazione dei luoghi sacri, la loro apertura a masse sempre più imponenti di fedeli e il finanziamento di moschee e migliaia di madrasse all’estero, trovando infine il perfetto impegno per i giovani che ardevano d’amore per Allah e d’odio per gli infedeli: l’Afghanistan occupato dai sovietici. Tutto questo non è bastato a metterli del tutto al riparo dalle critiche dei salafiti più salafiti degli altri, ma ha regalato al regno parecchi anni di relativa tranquillità, almeno fino a quando nel 1990 Saddam non ha deciso di papparsi il Kuwait dalla sera alla mattina, come «risarcimento» dell’impegno profuso contro l’Iran per conto terzi.

 

LA REPUBBLICA È IL VERO INCUBO DEI SAUD –

Con le armate irachene alle porte i Saud misero mano al portafogli, pagarono sull’unghia Desert Storm e accolsero le armate americane sul sacro suolo, masticando amaro quando Saddam non fu deposto dal primo Bush perché in fondo il dittatore serviva ancora come bastione a una temuta espansione iraniana. Espansione che però non si vedrà nemmeno quando Saddam sarà abbattuto dal secondo Bush, che per muovergli guerra agiterà il pretesto delle armi di distruzione di massa e ventilerà persino d’un suo coinvolgimento nell’Undici Settembre, al quale il dittatore era del tutto estraneo. All’alba degli anni ’90 il mondo era molto cambiato rispetto agli anni ’70 e ’80, era crollato il muro di Berlino e le grandi repubbliche socialiste arabe si erano trasformate in dittature di lungo corso che avevano dimenticato il socialismo e flirtavano volentieri con il capitalismo e gli americani. La liberazione del Kuwait raccolse il consenso generale e Saddam divenne un paria. Venti anni dopo, all’esplodere delle primavere arabe la repressione sistematica di ogni opposizione politica lascerà in quei paesi una sola forza politica organizzata ed estranea ai regimi, quella che si era formata attorno al clero e alle istituzioni religiose, i soli poli d’aggregazione e di socializzazione consentiti da regimi che facevano della laicità un punto di forza, ma che stroncavano sistematicamente qualsiasi afflato politico laico e ogni istanza della società civile. A differenza della teocrazia iraniana però, il modello maturato dai Fratelli Musulmani si è proposto come un’esperienza laica, praticabile e compatibile con l’Islam sunnita. Un modello alternativo a quello wahabita perché molto più aperto alla modernità, ma soprattutto un modello «repubblicano» che con la sua sola esistenza delegittima tutte le monarchie arabe, predicando l’ascesa al potere attraverso le libere elezioni e quindi il rifiuto della monarchia assoluta come forma di governo e con essa il disconoscimento del privilegio dinastico. Un’esperienza molto attraente per i cittadini dei paesi arabi, sicuramente più della dittatura militare o della tirannide assoluta del regno, sceiccato o califfato che sia. Un’eresia non solo per gli sceicchi del Golfo, ma anche per monarchi come il re di Giordania o quello del Marocco, che nei loro paesi non hanno aperto le porte alle democrazia o ceduto i loro poteri alle assemblee popolari, anche se hanno concesso parziali libertà che gli abitanti dei paesi del Golfo non si sognano nemmeno.

Dieci anni dopo, all’alba del nuovo secolo, si sono presentate nuove ed enormi preoccupazioni perché i Saud hanno rischiato di finire sul banco degli imputati dopo il 9/11 e hanno dovuto mostrare grande e buona volontà a un’amministrazione Bush che in poco tempo mise in riga, trasformandoli in alleati quasi affidabili, quasi tutti dittatori di cui sopra. Da Gheddafi ad al Bashir, da Assad a Musharraf tutti capirono e s’adeguarono, così il bastone americano calòsu Saddam, che forse aveva la sola colpa di essere un lavoro lasciato in sospeso dal primo Bush. L’invasione dell’Iraq del 2003 fu disgraziata, mal progettata e mal condotta e peggiorò ancora di più con la decisione di non vigilare le frontiere del paese, in particolare quella con l’Arabia Saudita attraverso la quale migliaia di sudditi dei Saud si recavano in Iraq per dare sfogo al loro fanatismo religioso e attaccare sciiti e occidentali. Ancora una volta i Saud avevano trovato il modo di far sfogare all’estero quel che bolliva nel regno sotto la cappa della censura e della repressione. Ogni giovane saudita che andava a uccidere sciiti in Iraq era un pensiero di meno e se poi moriva nel provarci i Saud avevano buoni motivi per gioirne. A un certo punto si formò pure un traffico di sauditi che andava in Iraq a far danni nei weekend e poi tornava a inizio settimana a riprendere le attività abituali. Solo di recente, temendo infiltrazioni dell’ISIS, i sauditi hanno chiuso il confine con una certa efficacia, ma allora non avevano problemi quando i loro estremisti andavano ad ammazzare o a farsi ammazzare in Iraq, come prima in Afghanistan quando Bin Laden e soci erano celebrati dai media occidentali. Ancora più insidiosi e mai veramente contrastati sono invece i facoltosi sauditi che negli anni hanno finanziato l’estremismo islamico arruolando volontari da tutto il mondo per portare la guerra in altri paesi, ma le loro azioni, coordinate o no con la monarchia che fossero, hanno sempre suscitato poco interesse, almeno in apparenza. Come loro, negli altri paesi del Golfo ci sono molte famiglie molto facoltose che finanziano o partecipano ad attività variamente sovversive, per lo più con il consenso dei rispettivi governi. Governi che non hanno mai rifiutato asilo ai più compromessi gruppi o esponenti politici in fuga da paesi musulmani, facendo del Golfo il paradiso per i potenti musulmani in disgrazia e guadagnando vaste riconoscenze ai suoi sovrani.

TUTTO CAMBIA, I TIRANNI RESTANO –

Tuttavia i sauditi han potuto far poco contro il riassetto strategico degli Stati Uniti dopo il 9/11. Gli americani già con Bush cominciarono a ridurre la dipendenza dal petrolio del Golfo e dei Saud in particolare, fino a diventare con Obama una potenza esportatrice grazie alle nuove riserve rese accessibili dal fracking e all’aiuto di nuovi fornitori, per lo più africani. Nel mondo rimangono clienti a sufficienza per i Saud, ma lo spezzarsi di quel filo è un motivo che sicuramente ha inquietato e inquieta ancora la dinastia, che ora a legarla a Washington ha solo i capitali investiti negli Stati Uniti, dove peraltro esistono leggi con le quali potrebbero essere immobilizzati invocando buoni e fondati motivi. Non siamo ancora arrivati al punto nel quale i Saud debbano temere un sequestro dei beni come quelli subiti da qualche autocrate africano, ma la possibilità è sicuramente presente nei loro timori. Per rimediare a questa evidente presa di distanza i Saud e gli altri sceicchi del Golfo si sono a più riprese offerti come strumento della politica americana nell’area, da una parte si sono assunti il «peso» di maggiori spese militari, dall’altra hanno avuto in gestione diversi dossier regionali, finendo per immischiarsi ancora di più negli affari dei paesi vicini, purtroppo quasi sempre con risultati pessimi. L’idea dal punto di vista degli Stati Uniti presenta diversi vantaggi ed è già stata ampiamente rodata ad esempio negli interventi per procura di Etiopia e Kenya in Somalia. Limitandosi a fornire assistenza ai suoi agenti, gli Stati Uniti evitano d’apparire formalmente in guerra e per gli americani è come se questi conflitti diventassero invisibili, inoltre il biasimo per qualunque cosa dovesse andar male si dirige così verso i paesi agenti. Per di più l’espediente permette d’aggirare la curiosità del Congresso e le formalità previste quando il paese si deve impegnare in un conflitto. E se capita che i sauditi o chi per loro finanzino un Frankenstein del terrore, è colpa loro e non di qualcuno che siede a Washington. L’espediente permette così di limitare le spese, l’esposizione mediatica e il rischio di perdite americane e/o occidentali, le uniche che importino veramente per le opinioni pubbliche occidentali. Per gli stessi motivi gli Stati Uniti hanno dato in outsourcing l’esecuzione di interrogatori e torture dopo Abu Ghraib, trovando anche in regimi formalmente ostili come quelli di Siria e Sudan grande collaborazione. La War on Terror, Abu Grahib e Guantanamo hanno fatto poco per l’esportazione della democrazia, al contrario hanno finito per legittimare la repressione più spietata e la tortura, non c’è stato regime o paese che non ne abbia approfittato per etichettare come «terroristi» gli oppositori e trattarli di conseguenza, come han fatto gli americani, che così han privato d’ogni legittimità i paesi e le istituzioni che invece insistevano e insistono per il rispetto dei diritti umani . Per contro il controllo dell’esecuzione affidata ad altri non può essere perfetto e spesso gli agenti si rivelano al di sotto delle aspettative, vuoi perché nonostante le dotazioni e l’addestramento bellico si rivelino militarmente poco capaci, vuoi perché le attese di Washington siano spesso trascurate per rincorrere obiettivi diversi da paesi che accettano l’impegno pur avendo interessi diversi da quelli americani, il che è sicuramente il caso dei Saud e dei colleghi.

L’Arabia Saudita ha cominciato così a investire cifre enormi in armamenti, per assumersi la sua parte del peso alla lotta al terrorismo come suggerito dagli americani, e poi ad agire da potenza regionale. Poi insieme ai vassalli del Golfo, è intervenuta in Siria fornendo armi ai nemici di Assad mentre gli americani inviavano materiale «non letale», ha contribuito a soffocare la primavera araba in Bahrein e in altri paesi, è intervenuta in Libia e ha sostenuto il golpe con il quale al Sisi ha defenestrato e poi massacrato i Fratelli Musulmani, usciti vincitori dalle prime elezioni libere che il paese avesse visto in decenni, restaurando di fatto la dittatura che fu di Mubarak. Dal punto di vista dei Saud è chiaro che le dittature laiche che, dall’Algeria all’Iraq, hanno tenuto sotto scacco il mondo arabo per decenni sono molto preferibili a qualsiasi esperimento democratico, ancora di più a quelli che prevedano l’affermarsi di un Islam politico sunnita, ancora di più se s’impegnano a reprimere i Fratelli Musulmani.

IL RITORNO DELL’IRAN –

Il fatto che gran parte di questi interventi non siano riusciti come sarebbe piaciuto a Washington e agli stessi Saud ha contribuito a far calare le loro quotazioni presso l’amministrazione Obama e nemmeno l’intervento in Yemen, probabilmente gradito a Washington quanto fallimentare, ha risollevato le sorti della relazione tra la dinastia saudita e il grande protettore americano. E c’è di peggio, perché in parallelo l’Iran si è dimostrato un fattore di stabilizzazione in Iraq e persino in Afghanistan. A Washington è stato apprezzato anche l’impegno profuso contro i qaedisti da parte degli Ayatollah e, non ultimo, l’intervento in Siria in soccorso di Assad contro l’ISIS. Benemerenze che hanno contribuito ad arrivare alla firma dello storico accordo sul nucleare, che ha tolto l’Iran dalla lista degli stati canaglia e anche dallo scomodo ruolo di capro espiatorio per le destre occidentali, che da Bush a Netanyahu hanno usato spesso la presunta «minaccia iraniana» per risolvere o coprire i problemi interni. A dire il vero tutta la storia delle sanzioni e delle accuse all’Iran, perché avrebbe voluto dotarsi di armi atomiche, è parsa una sceneggiata a parecchi osservatori, non solo perché quando s’è scoperto che era il Pakistan ad alimentare il programma nucleare iraniano tutto il quadro ha assunto un aspetto molto diverso da quello dipinto dalla propaganda, anche agli occhi degli osservatori più distratti. Per contro, dagli intrighi di sauditi e sceicchi assortiti è spuntata prepotente l’ISIS in Siria e in Iraq e con essa altre forze che hanno violentemente destabilizzato alcuni dei paesi investiti dalle primavere arabe. Un caos ottenuto passando senza soluzione di continuità dal finanziamento di gruppi d’estremisti islamici a quello di aspiranti dittatori come al Sisi in Egitto o Haftar in Libia. Non per questo c’è da stupirsi che al Qaeda o l’ISIS continuino a manifestarsi anche in Arabia Saudita, attaccando di preferenza i militari (per lo più stranieri) o gli incolpevoli sciiti, così come non c’è da stupirsi che con il crollo delle roccaforti di Mosul e Raqqa l’organizzazione sia tornata a minacciare l’Arabia Saudita, i Saud godono di pochissima stima presso le opinioni pubbliche arabe e tra i qaedisti ancora meno. È ovvio e ampiamente previsto che quanti hanno partecipato all’avventura dello stato islamico finiranno per tornare ai loro paesi d’origine se riusciranno a sopravvivere, così com’è ovvio che le risorse che arrivavano dall’estero per sostenere il califfato d’ora in poi poi si dirigeranno altrove. Non è solo l’Europa che deve temere il ritorno dello jihadista sconfitto.

Poi è arrivato Trump, che ha raccolto l’eredità dei neocon in politica estera e che ha preso a bordo le persone giuste, quelle già sensibilizzate da anni di spese faraoniche da parte dei Saud per ingrassare politici, ufficiali, funzionari e lobbysti americani. La leggendaria «generosità» dei Saud non è altro che una gigantesca opera di corruzione perseguita spendendo i soldi rubati ai sauditi da una dinastia corrotta e parassita, che conserva il paese nel medioevo perché nell’era moderna non avrebbe diritto di cittadinanza, figurarsi quello di esercitare il potere di vita e di morte su un intero popolo e d’opprimerlo fino al punto da privarlo di quelli che altrove sono considerati diritti umani fondamentali. Grazie a questa estesa opera di corruzione i Saud sono raramente chiamati in causa come titolari di un regime totalitario e sanguinario dai politici e dai media occidentali. Anche quelli con il dente avvelenato con «i musulmani» evitano accuratamente di mettere all’indice i Saud e i loro colleghi del Golfo, provare per credere, basta vedere cosa scrivono degli sceicchi del Golfo i giornali così accaniti contro musulmani e terroristi al punto da confonderli abitualmente o la velocità con la quale Berlusconi si scusò quando ebbe parole per niente carine per i sauditi. Non per niente sono anni che l’amministrazione americana plaude ai «progressi» e alle «aperture» dei Saud senza che i loro sudditi vedano altro che la solita repressione e le solite frustate.

I FALLIMENTI IN SERIE DEI SAUD –

Gran parte dei problemi del Golfo di oggi nascono quindi dalla pretesa americana d’affidare a questo genere d’alleati la gestione della lotta al terrorismo in Medio Oriente e dall’evidente incapacità di chi è stato investito di questo compito. I sauditi hanno fallito a più riprese, ha fallito la vecchia generazione in Siria e in Libia, continua a fallire la nuova e più pugnace leva dei Saud, che si è infilata in una guerra senza speranze in Yemen e che ora aggredisce il Qatar per cercare di gettare sul vicino la colpa di questi fallimenti in serie. Una situazione che in fondo è l’esito scontato delle politiche dei neoconservatori dopo il 2001, che si erano proposti di «esportare la democrazia» in Medio Oriente e che invece in realtà vi hanno cementato la tirannide rafforzando le autocrazie.

Vecchie e nuove generazioni dei Saud in questi anni hanno dovuto accompagnare la delusione per questi fallimenti con l’irritazione per il ruolo sempre più impertinente e autonomo del Qatar e in particolare l’insofferenza per l’attività di al Jazeera, network globale «arabo» che si è imposto all’attenzione internazionale e che ha la grave colpa di non aver lavorato abbastanza per trasformare le recenti disavventure del regno in magnifiche imprese, come d’abitudine fanno i media foraggiati dai Saud. Sicuramente lo schierarsi della famiglia al Thani accanto ai Fratelli Musulmani è una fonte di preoccupazione, ma il vero tarlo è al Jazeera, che i Saud non sono riusciti a contrastare nemmeno finanziando con generosità numerose avventure mediatiche concorrenti. Per parte sua la famiglia regnante del Qatar non risulta immune dai difetti evidenziati nei Saud e sicuramente non è meno ambiziosa dei vicini, avendo dimostrato d’aspirare a un ruolo internazionale per il quale il paese, che ha una popolazione autoctona inferiore a quella di una modesta cittadina, non è assolutamente tagliato. I soldi non sono tutto e al Qatar non è bastato mettere in piedi la CNN araba e finanziare generosamente decine di formazioni politiche nel mondo arabo per ritagliarsi un ruolo che non è il suo. Quella del Qatar non è comunque una dinastia ribelle al referente coloniale con il quale non ha mai avuto grossi contrasti, a lungo al Jazeera è stato uno strumento prestato agli americani, con il suo direttore che si coordinava con l’intelligence americana, dopo una falsa partenza durante la quale l’emittente commise il peccato di farsi veicolo dei messaggi di Bin Laden.

Cose che capitano quando concedi a monarchie assolute e dal dubbio lignaggio il controllo delle maggiori risorse energetiche del pianeta, verrebbe da dire osservando le evoluzioni delle monarchie del Golfo per sopravvivere in un mondo nel quale la tirannide assoluta e dinastica è stata teoricamente bandita da un paio di secoli. Cose che capitano quando crei un’eccezione alle regole universali con le quali il mondo s’è imposto il rispetto dei diritti umani e l’affermazione della democrazia, affidando il destino d’interi popoli ed enormi quantità di denaro alla gestione personalistica di famiglie e gruppi di parassiti che non hanno orizzonte diverso dalla sopravvivenza del proprio potere, per perseguire la quale vale tutto.

SOTTO I SOLDI NIENTE –

Le dinastie del Golfo scontano però un altro peccato, che ha molto a che fare con l’hybris e che è quello di credersi molto più forti di quanto non siano in realtà. La legittimità del loro potere è infatti appesa al filo del consenso internazionale, modi e motivi per rovesciarlo sono già scritti nella storia da secoli. E i motivi sono fondatissimi. Per di più i monarchi del Golfo commettono un altro errore capitale credendo che il potere dei loro soldi possa sopperire a una clamorosa debolezza militare, perché anche l’Arabia Saudita che ha innalzato la propria spesa militare fino a piazzarsi a livello della come Russia al terso posto nel mondo, è in realtà un nano privo di un esercito degno di questo nome quando s’arriva al confronto con altri paesi. Un gap che la dinastia s’illude di colmare con l’acquisto di grandi quantità d’armamenti moderni, che però non sono sufficienti a fare del suo esercito una forza temibile. L’avventura in Yemen lo conferma, anche se gli yemeniti sono un popolo indomito e armato fino ai denti, un brutto cliente per chiunque, è evidente che anche l’ enfant prodige Mohamend Bin Salman ha sbagliato qualche valutazione. E non di poco, se è vero come appar vero che nella parte meridionale che ha accolto sauditi e alleati ci sono ora diverse fazioni rivali che si combattono apertamente, sostenute ciascuna da un «alleato» diverso e prospera la locale filiazione di al Qaeda. I sauditi peraltro non sono nelle condizioni di rimediare, perché la dinastia si è sempre opposta alla creazione di un forte esercito o alla militarizzazione della società, necessaria per portare e livelli di elevata pericolosità bellica un paese con solo 20 milioni d’abitanti, preferendo al bisogno far ricorso a mercenari o alle truppe di paesi amici. La creazione di una casta militare porterebbe di fatto alla costituzione di un centro di potere che i Saud non vogliono assolutamente creare, così come non vogliono l’addestramento militare della popolazione, peraltro da tempo assuefatta a vivere della generosa elemosina di uno stato assistenzialista e poco incline per questo a prendersi grossi disturbi, come lavorare o appunto intraprendere una carriera impegnativa come quella militare per finire a fare il mastino dei Saud. I vicini del Golfo non sono messi meglio: Qatar, Bahrein ed Emirati (8 milioni di abitanti, appena il 13% di locali) faticano in tre a mettere insieme due milioni d’abitanti autoctoni e non rappresentano una seria minaccia militare per nessuno,

Tutti questi paesi sono inoltre vulnerabili a causa del gran numero di stranieri presenti sul loro territorio, il 30% per l’Arabia Saudita che è quella che ne ha di meno, e per la loro totale dipendenza dal’esportazione degli idrocarburi, sia gas o petrolio, una volta bloccato l’export tutti questi paesi sarebbero costretti a capitolare molto velocemente, mancando di altre risorse e persino delle risorse alimentari sufficienti a sostenere una popolazione che negli anni è esplosa contando sull’import di beni e materie prime essenziali. Questa debolezza si è manifestata in maniera ancora più evidente dal 2008 in avanti insieme al precipitare del prezzo del petrolio, che da solo è bastato a mettere in difficoltà i Saud, che si sono trovati da un lato con l’afflusso di denaro fresco quasi dimezzato e dall’altro nella necessità d’investire in armi per coltivare le ambizioni della famiglia regnante, ma anche in sviluppo e welfare per tenere in piedi il paese e sedato il corpo sociale che è particolarmente imperscrutabile sotto la patina della censura governativa, ma almeno in parte certamente agitato e reattivo perché l’età media dei sauditi è molto bassa, attorno ai 25 anni, inoltre a dispetto dei desideri dei Saud i loro sudditi più giovani godono di una vista sul mondo sicuramente sconosciuta ai loro genitori.

DELENDA SAUD –

Tutto questo insieme di considerazioni porta quindi a scartare le spiegazioni del comportamento di sauditi e soci imperniate su considerazioni teologiche, sulle divergenze tra salafiti o ancora peggio sul presunto scontro di civiltà. Altrettanto deboli appaiono quelle fondate sull’esistenza di contrapposti nazionalismi, particolari convinzioni ideologiche e pure quella fondata sull’eterna ostilità all’Iran. I Saud si sono anzi dimostrati particolarmente elastici sia nel mutare alleati che nel sorvolare apparenti pregiudiziali ideologiche quando ne hanno avuto l’interesse, prova ne sia l’atteggiamento nei confronti d’Israele. Quella di Saud e soci è solo l’ovvia lotta da parte di regimi autocratici per conservare e tramandare un potere assoluto privo d’alcuna legittimità agli occhi del resto del mondo. E così i modi degli sceicchi non sono molto diversi da quelli di altri autocrati, spietati in casa, melliflui e corruttori in trasferta, sempre attenti alle possibili minacce al loro potere e facili a sprofondare nella paranoia quando le cose vanno male. Se è vero che i problemi del Medio Oriente non potranno essere risolti senza la soluzione della questione israelo-palestinese, è ancora più vero che sperare in una pacificazione dell’area senza prima aver eradicato le monarchie feudali del Golfo è una pia illusione. Fino a che saranno al potere i Saud e i loro omologhi, i sudditi del Golfo vedranno negati i propri diritti umani e l’enorme rendita petrolifera finirà per essere investita nella repressione interna, nell’allevare ovunque nel mondo i giovani alla versione più retriva dell’Islam e nel fomentare la lotta alla democrazia nei paesi arabi o comunque a maggioranza musulmana.

Si tratta di una considerazione tanto banale quanto radicalmente rimossa dalle analisi e dai dibattiti sul Medio Oriente e sulla lotta al terrorismo che ha le sue radici nell’estremismo islamico, perché se mai trovasse cittadinanza nel discorso pubblico costringerebbe l’Occidente a confrontarsi con la necessità di rovesciare le dinastie che da decenni hanno fatto di quei paesi dei possedimenti personali e che pur di rimanere al potere hanno dimostrato d’essere disposte a tutto. I Saud e i loro omologhi sono il tumore che corrode il Medio Oriente, ma sono un tumore disegnato e creato ai tempi della decolonizzazione dagli angloamericani, che dalla situazione hanno tratto e continuano a trarre enormi vantaggi, difficile per ora immaginare che a Washington o a Londra ci sia qualcuno disposto a rinunciare a quei vantaggi, anche monetari, in nome della democrazia e della libertà.

 

 

 

 

 

Messo il tag: , , ,