
La crisi della Repubblica Centrafricana si consuma tra una pulizia etnica sempre più capillare e l’avanzare dell’idea di dividere il paese lungo linee confessionali. Nel frattempo l’opera di assistenza internazionale si rivela ancora una volta un fallimento, tra ONU, Unione Africana e Unione Europea trascinata fin là dalla Francia, non si riescono a mobilitare le risorse necessarie a curare i mali di un paese fallito anche per colpa dei troppi amici.
I paesi europei hanno deciso ad aprile di mandare un modesto contingente in aiuto alla Repubblica Centrafricana nel quadro di una missione organizzata dall’UE, i nostri militari arriveranno nel paese con grande ritardo, a metà giugno la missione europea è divenuta operativa senza i genieri italiani. Poco male, nel decreto che il 5 agosto stanziava i fondi per la missione è spuntata una Base Militare Nazionale di Supporto a Gibuti, che di per sé è assai più rilevante della partecipazione alla missione internazionale. Insieme a 2,9 milioni per le spese del contingente inviato a Bangui ci sono i fondi per «il funzionamento della base militare nazionale a Gibuti.
Significa che l’Italia ha ora una base militare sul continente africano, non succedeva dai tempi della decolonizzazione, un progetto maturato negli ultimi 5 anni e ora operativo, senza che si sia discusso molto della questione, visto che l’idea di una base in Africa prelude al sostegno a una proiezione del nostro dispositivo militare in una regione caldissima e affollata di basi occidentali.

Il primo ministro uscente Andre Nzapayeke, con il suo successore, Mahamat Kamoun, a destra. (Photo credit PACOME PABANDJI/AFP/Getty Images)
Sempre a Gibuti, comunque, ci sono francesi e americani piazzati molto più massicciamente di noi. Resta da capire cosa si farà in quella base, dalla quale in teoria potrebbero operare anche aerei e droni impegnati in missioni diverse da quelle anti-pirateria, che finora giustificano la nostra presenza in zona. Mentre i militari di Francia, Estonia, Lettonia, Spagna, Portogallo, Polonia, Finlandia, e Georgia aspettano i nostri, la situazione in Repubblica Centrafricana non volge al meglio. La presenza dei 2.000 militari della missione francese Sangaris e dei 6.000 africani della MINUSCA non riesce a sedare gli scontri che s’accendono nel paese e nemmeno a fornire una protezione decente alla minoranza musulmana, ormai fuggita dall’Ovest del paese verso Est o all’estero quasi al completo.
Uno sviluppo inatteso in un paese nel quale non si erano mai registrati conflitti settari o frizioni lungo le linee della religione, come spesso accade frutto dell’incapacità del referente coloniale di mantenere l’ordine nel suo cortile di casa africano. Una crisi maturata velocemente nel vuoto di potere seguente la cacciata del dittatore, che ora s’aggira per Parigi chiedendo inutilmente udienza, dal dicembre scorso in poi, ma capace in pochi mesi di cambiare il profilo demografico del paese africano, costringendo alla fuga quasi un quarto dei suoi circa quattro milioni d’abitanti. Colpa dei francesi non aver sloggiato prima il dittatore Bozizè, che da anni prometteva elezioni mentre il paese era lasciato a se stesso, colpa dei francesi l’essersi limitati a garantire la sicurezza dell’aeroporto e dei quartieri d’interesse quando le bande dei Seleka sono calate nella capitale per cacciare il dittatore. E ancora colpa dei francesi quando hanno pensato che a disarmare le bande Seleka potevano essere d’aiuto gli anti-balaka, milizie improvvisate e spesso legate all’ex regime che, lamentando la persecuzione dei cristiani, hanno massacrato e costretto alla fuga i musulmani.
Ora, con il paese letteralmente spaccato in due e con rare sacche nell’Ovest dove restano assediati i residenti musulmani, come i 10.000 asserragliati nella città di Boda e circondati da mesi da anti-balaka che li vogliono morti o in fuga, il contingente francese è impegnato in occasionali combattimenti e non dice nemmeno con chi, com’è accaduto nel caso dell’ultimo rapporto nel quale si descrive il confronto con un centinaio di armati, dispersi o più probabilmente annientati con l’aiuto dell’aviazione.
Non sono mancati i tentativi di porre fine agli scontri armati, ma sia i Seleka che gli anti-balaka sembrano privi di una struttura di comando affidabile e così ogni tentativo d’imporre o concordare il cessate-il-fuoco si è concluso nel nulla, così se da un lato i musulmani continuano a essere perseguitati, dall’altro i Seleka si sentono legittimati a rispondere con le armi. O anche solo a tenerle in nome della minaccia evidente. Non è mancato chi ha gridato alla divisione del paese, ipotesi che però non sembra volere nessuno.
Formalmente il paese si è dato un nuovo governo, ancora senza elezioni, il primo ministro uscente, rimasto in carica appena pochi mesi, Andre Nzapayeke, ha lasciato il passo a Mahamat Kamoun, che per la prima volta porta un musulmano a capo dell’esecutivo. Un chiaro segnale verso la pacificazione, ma pare non siano rimasti in molti a raccoglierlo, se infatti la politica cerca una soluzione gradita e assistita da Parigi, la presa della leadership sul paese sembra nulla, sia sul versante «cristiano» che su quello «musulmano.»
Pubblicato in Giornalettismo
Posted on 27 agosto 2014
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