
Israele è in grosse difficoltà. “Uno stato palestinese fu stabilito sotto lo sguardo di Netanyahu e Lieberman. Sarà scritto per sempre accanto ai nomi di Netanyahu e Lieberman”. La citazione apre un articolo su Ynet News e spiega da sola lo storico momento. Spiega la contrarietà israeliana alla costituzione di uno stato palestinese, spiega come al di là dell’ipocrisia buona parte degli israeliani miri molto più in là dei confini del 1967 e spiega anche come i palestinesi e il resto del mondo stiano andando a vedere il bluff dei governi israeliani che, dal sabotaggio degli accordi di Oslo ad oggi, hanno messo il turbo alla colonizzazione e all’oppressione dei palestinesi.
Il governo israeliano non ci può far niente, e allora dopo le inutili minacce di rappresaglie nei mesi scorsi, adesso cerca di sminuire il significato dell’evento: “Sarà una decisione insignificante, visto che solo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU può approvare la nascita di un vero stato”, ha spiegato un ufficiale del governo che non ha voluto essere nominato, aggiungendo che il vero scopo di Mahmoud Abbas sarebbe quello di distrarre i palestinesi dal suo cattivo governo. Come se poi si potesse governare con successo una serie di Bantustan dai quali si esce e si entra al ritmo stabilito da una potenza occupante.
In realtà uno stato palestinese esiste già, oggi si vota solo la sua ammissione all’assemblea dell’ONU in qualità d’osservatore. 131 paesi, il 68% dei 193 stati membri già riconoscono la Palestina, e quasi tutti i paesi che non la riconoscono come stato, compresa Israele, riconoscono il governo palestinese come rappresentante del popolo palestinese. Una situazione che legittima l’esistenza dello stato palestinese a prescindere dall’adesione all’ONU e dal riconoscimento tra i paesi associati, che porta con sé conseguenze diverse dal semplice riconoscimento, ma che ha incidentalmente l’effetto di rendere incontestabile l’esistenza dello stato palestinese.
Se quindi non cambia molto nei rapporti con i paesi che già riconoscono la Palestina, cambia invece il rapporto tra la Palestina e le leggi e le istituzioni internazionali. L’acquisizione dello status di paese osservatore permetterà al novello stato palestinese di firmare le convenzioni internazionali, dalla convenzione universale dei diritti umani in giù. Lo stato palestinese assumerà quindi una personalità giuridica che gli permetterà di agire da stato in molteplici occasioni, potendo tra l’altro chiedere giustizia di fronte alla corte dell’Aia o al Tribunale Penale internazionale.
Questa è l’evenienza più temuta da Israele, che sullo status indeterminato dai palestinesi ha sempre giocato per escludere qualsiasi sindacato di legittimità sul suo operato e sostenere di essere esentato dal rispettare cose come la Convenzione di Ginevra e altre regole che avrebbero impedito l’oppressione dei palestinesi così com’è stata realizzata.
Proprio la possibilità di adire i tribunali internazionali è quella temuta da Israele, lo testimoniano numerose dichiarazioni e anche i dietro le quinte, rivelati dai cable di Wikileaks e persino la dichiarazione di William Hague, con la quale il ministro degli esteri britannico ha detto che il suo paese si asterrà in assenza di assicurazioni palestinesi sul ritorno ai colloqui di pace e sul fatto che non cercheranno la condanna d’Israele o ufficiali israeliani presso il TPI.
L’effetto costitutivo della nuova situazione imporrà prima di tutto degli obblighi agli stessi palestinesi, i quali firmando convenzioni e aderendo ai trattati internazionali vi si sottometteranno, ma avrà effetti rilevanti anche per Israele in quanto i suoi obblighi di “potenza occupante” secondo il diritto internazionale non potranno più essere ignorati. Anche se la propaganda israeliana nega che esista un’occupazione, per il diritto internazionale non ci sono dubbi, visto che detiene il potere assoluto in West Bank, compreso il controllo totale dell’area C (che è il 62% della West bank), di Gerusalemme, delle fonti idriche, oltre ad avere il controllo dello spazio aereo, quello civile e militare dei confini e altro ancora.
La stessa situazione di Gaza integra un’occupazione anche se le truppe israeliane non sono sul terreno di Gaza, ma “solo” nel suo spazio aereo e tutto intorno a sigillare l’area. Lo status del territorio occupante non è in questione, tanto che Israele è “potenza occupante” anche in assenza di stato palestinese, ma la propaganda israeliana parla di “territori contesi”. Un falso, perché non sono affatto contesi, non potendo Israele far valere il diritto di conquista. Gran parte del dominio israeliano sui palestinesi si gioca sulla capacità d’imporre una semantica per la quale ad esempio i palestinesi che resistono all’occupazione sono tutti “terroristi” o d’imporre l’uso di narrazioni distorte come quella dei territori contesi o dell’inesistenza della Palestina.
Utili equivoci che sono destinati a sparire quando le due Gerusalemme si dovranno affrontare godendo dello stesso status e degli stessi diritti. Il problema più grosso in questo caso sarebbe rappresentato proprio da quelle colonie che, approfittando della war on terror, Israele ha costruito a velocità mai vista prima, dopo aver affondato gli accordi di Oslo. Migliaia di case da quando il governo israeliano (come rivendicheranno poi Netanyahu e altri – video) fece fallire il negoziato e passò immediatamente ad accusare Arafat di “aver rifiutato il 98%” dei territori palestinesi.
Il sorgere dello stato palestinese non ha effetti retroattivi, israeliani e palestinesi non potranno essere giudicati per i crimini antecedenti alla data di oggi, ma potranno giudicare quelli commessi dalla sua costituzione in poi, che erano crimini anche prima, ma che non potevano arrivare in tribunale. Su tutti le colonie, perché proprio nello statuto del Tribunale Penale Internazionale è stabilito che il trasferimento, diretto o indiretto, di popolazione della potenza occupante nel territorio occupato costituisce un crimine di guerra, mentre la segregazione della popolazione e la pulizia etnica per far posto ai coloni sono classificati tra i crimini contro l’umanità.
Il diritto è dalla parte dei palestinesi e non è un caso se da Abbas ad Hamas, per finire al Dipartimento di Stato americano, si parli del riconoscimento della Palestina entro i confini del 1967. Proprio quell’anno si formalizzò all’ONU quello che sarà destinato a diventare un pilastro del diritto internazionale e che già era stato enunciato in alcune convenzioni internazionali: il principio per il quale la guerra e la conquista non costituiscono titolo per accrescimenti territoriali. Una norma semplice, destinata a rendere inutili le guerre di conquista, che mai e poi mai potranno trasformarsi in guadagni territoriali senza il consenso dei cittadini “occupati” da esprimersi attraverso un referendum a suffragio universale.
Per questo il riferimento comune è ai confini del 1967, perché dopo di allora Israele non può aver acquisito legalmente un metro di terra in più. I confini del 1967 sono già molto più estesi di quelli previsti dalla risoluzione ONU 181 del 1947, che divideva il Mandato di Palestina affidandone il 46% ai palestinesi e il 54% ai futuri israeliani. I confini del 1967 lasciano ai palestinesi appena il 22% di quello che era un territorio da dividere a metà con la nuova nazione degli ebrei, ma pare che anche questo sia troppo per Israele, che di quel 22% del territorio ne vorrebbe un bel po’, almeno a giudicare da dove e come ha costruito e continua a costruire all’interno della West Bank.
Non ci sono altre questioni accessorie che rilevino per il diritto, il reciproco riconoscimento tra israeliani e palestinesi è già avvenuto tempo fa, la Palestina si è dichiarata indipendente nel 1988 e i due paesi hanno tenuto rapporti ufficiali tali da integrare un riconoscimento reciproco de facto, che è valido anche se non esplicito e che non è revocabile, questo dice il diritto internazionale. Il riconoscimento d’Israele è inoltre scritto negli impegni della Lega Araba e del governo palestinese e quindi il problema del riconoscimento del diritto all’esistenza d’Israele non si pone proprio, così come non si pone il problema del “diritto al ritorno” in Israele di quanti furono cacciati dall’attuale Israele, già destinato a cadere in virtù di quegli stessi accordi e impegni quando nasca lo stato palestinese.
La situazione è chiara e le incognite si riducono al conteggio dei voti in Assemblea e all’osservazione della posizione che prenderanno alcuni paesi, quelli europei in particolare. Contro voteranno sicuramente Stati Uniti, Canada, Olanda e qualche paese dell’Oceania al traino di Washington, mentre la UE ed alcuni paesi europei, Germania e Gran Bretagna su tutti, si dovrebbero astenere. “Non sostenere” non è votare no come hanno tradotto in molti, quello si traduce nell’opporsi. I due governi hanno invece scelto di non schierarsi platealemente contro il volere di Washington, che non è che abbia convinto molti nella sua robusta opera di dissuasione. Allo stesso modo s’asterrà l’Australia, dove la conservatrice Julia Gillard è stata messa in minoranza dai ministri del suo stesso governo e dai parlamentari, costretta a rinunciare ad esprimere un voto contrario, pena finire in minoranza e aprire una crisi di governo. Le hanno detto che “gli australiani non vogliono stare dalla parte sbagliata della storia” e dopo giorni da tregenda si è piegata.
Francia, Svizzera e Spagna, Danimarca e parecchi altri voteranno invece a favore, mentre l’Italia non ha ancora sciolto la riserva e svelato la sua posizione, che finirà per essere probabilmente l’astensione. Dicono le agenzie che: “la posizione da tenere domani è ancora da definire pienamente dopo una giornata di intensi contatti tra Quirinale, Palazzo Chigi e Farnesina”. L’ambasciatore Cesare Maria Ragaglini, rappresentante italiano all’ONU ha confermato “Si sta ancora discutendo ai massimi livelli: riceveremo istruzioni tra questa sera e domattina”. Facile intuire da che parti provengano le opposizioni, il segretario del PD si è pronunciato per il sì e così in genere tutta la sinistra. Chi non ha parlato e non si è esposto pubblicamente sta invece operando discretamente perché l’Italia oggi si trovi ancora una volta “dalla parte sbagliata della storia”. Se tutto va bene ci asteniamo.
Pubblicato in Giornalettismo
Aggiornamento: Il governo italiano ha dichiarato a sorpresa che voterà sì, accompagnando la notizia con questa dichiarazione, nella quale si chiede ai palestinesi di rinunciare ad esercitare i propri diritti e allo stesso tempo si dimostra una fondamentale ignoranza delle questioni di diritto in causa, chiedendo a vanvera la rinuncia a un “uso retroattivo” della Corte Penale Internazionale che è del tutto impossibile e che quindi non può essere nei piani della dirigenza palestinese.
«Il Presidente Monti a telefonato al Presidente Mahmoud Abbas e al Primo Ministro Benjamin Netanyahu per spiegare le motivazioni della decisione italiana. Nel dare sostegno alla Risoluzione, l’Italia, in coordinamento con altri partner europei, ha in parallelo chiesto al Presidente Abbas di accettare il riavvio immediato dei negoziati di pace senza precondizioni e di astenersi dall’utilizzare l’odierno voto dell’Assemblea Generale per ottenere l’accesso ad altre Agenzie Specializzate delle Nazioni Unite, per adire la Corte Penale Internazionale o per farne un uso retroattivo».
icittadiniprimaditutto
29 novembre 2012
Reblogged this on i cittadini prima di tutto.
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Marco
29 novembre 2012
Io, palestinese gay, lotto per i diritti del mio popolo
Quanti omosessuali vivono in Palestina?
Si stima più di 400.000.
Quanti omosessuali palestinesi vivono in Israele?
Le associazioni israeliane stimano circa 300.
Lo 0,07% del totale.
Quanti omosessuali palestinesi in Israele hanno ottenuto asilo o almeno un permesso di soggiorno o almeno la garanzia di non venire perseguitati come “infiltrati” (come li definisce la legge israeliana)?
0.
Lo 0,0% del totale.
Ecco i numeri del paese che secondo tanti aiuterebbe i gay palestinesi.
Marco
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atlantropa
29 novembre 2012
Sì, però io sono meno ottimista.
Innanzitutto la 242 non stabilisce da quali territori o dietro quali linee Israele dovrebbe/avrebbe dovuto ritirarsi.
Il wording in inglese della risoluzione è ambiguo, ma tutt’altro che casuale; alla fine, a prescindere dalle dichiarazioni fatte mettere a verbale, si è votato in favore di quel “retirement form territories”, senza gli all o i the che pure furono proposti.
Non dimentichiamo poi che il ritiro è solo un piatto della bilancia; l’altro, più problematico in quanto innazitutto meno oggettivo, è la pace.
Infine l’idea generalmente condivisa, il pilastro, è che non si possa acquisire terra mediante una guerra offensiva; però – come la diplomazia israeliana non smette mai di far presente – sul fronte giordano l’aggressore fu proprio la Giordania, non Israele.
Questo per dire che il diritto internazionale non dà indicazioni così cristalline circa il processo di pace [e che quando i palestinesi avranno capito che non devono farci troppo affidamento, o che il pressing della comunità internazionale su Israele potrebbe anche non arrivare mai, sarà sempre troppo tardi; speriamo in ogni caso che non rinuncino alla possibilità di ricorrere agli organismi di giustizia internazionali, e stiamo a vedere che succede…].
Del resto, il processo di pace non è roba da azzeccagarbugli o di mera ermeneutica delle risoluzioni Onu; ci vogliono anche quegli ingredienti, certo; ma l’ingrediente fondamentale resta la volontà da parte di rappresentanti legittimi dei due popoli, di sedersi ad un tavolo e firmare qualcosa, sapendo che alla propria gente quella firma sembrerà comunque una resa.
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mazzetta
29 novembre 2012
no, la storia che la guerra difensiva legittimi acquizioni territoriali non esiste proprio, è pessima propaganda
una volta riconosciuto lo stato palestinese con i confini indicati dai palestinesi e riconosciuti dagli altri il problema del wording della risoluzione sparisce
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atlantropa
30 novembre 2012
Non sono un esperto, però personalmente non credo che si possano sbrigare le numerose interpretazioni di segno opposto come propaganda; abbiamo opinioni dissenzienti di diversi giudici dell’ICJ; inoltre ne abbiamo sia di precedenti sia di successive al 67.
La situazione mi pare questa: l’idea condivisa da tutti è l’inammissibilità delle acquisizioni territoriali mediante guerre di conquista/di aggressione; una parte degli studiosi dissente sull’applicazione del principio a qualunque tipo di guerra; quanto questa parte sia significativa personalmente non so dirlo, ma temo che ignorarne l’esistenza o derubricarne le tesi a mistificazione sia un errore; concordo assolutamente sul fatto che questa posizione sia strumentalizzata ai fini di propaganda.
[del resto se il ritiro da tutte le terre occupate in guerra fosse automatico, nessuno, nel SC, avrebbe avuto nulla da obiettare sull’aggiungere un “all” prima di “territories”, non credi?]
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mazzetta
30 novembre 2012
forse non è chiara una cosa.
esiste il diritto e poi esistono le interpretazioni del diritto
quelle fantasiose che cercano di forzare il diritto senza appigli che la retorica, sono appunto fantasie
mistificazioni
che poi non si vede come “l’attacco” da parte della Giordania possa importare un’acquisizione territoriale ai danni dalla Palestina,
il tutto senza considerare che da oggi tutte le seghe di questo tipo che si spargevano fino a ieri sono finite, kaputt, l’unica realtà è che oggi esiste uno stato di Palestina riconosciuto nei confini del 67
come e perché ci sia arrivati ormai non rileva più, meglio abituarsi alla nuova realtà e deporre il ciarpame con il quale tanti si sono trastullati per anni
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atlantropa
30 novembre 2012
Io non sono per nulla contrario al senso di ciò che dici o che auspichi.
Ciò che dubito, però, è che il diritto internazionale sia così univoco come sembri sostenere.
Ad esempio:
“We simply do not support the description of the territories occupied by Israel in 1967 as ‘Occupied Palestinian Territory’. In the view of my Government, this language could be taken to indicate sovereignty, a matter which both Israel and the PLO have agreed must be decided in negotiations on the final status of the territories. “Had this language appeared in the operative paragraphs of the resolution, let me be clear: we would have exercised our veto. In fact, we are today voting against a resolution in the Commission on the Status of Women precisely because it implies that Jerusalem is “occupied Palestinian territory”.” [M. Albright, 1994]
Senz’altro negli anni le posizioni che vorrebbero lasciare ad Israele mano più o meno libera sono andate progressivamente indebolendosi, e parallelamente certi principi basilari sono divenuti cogenti.
Se lo sbocco è quello che tu descrivi come realtà assodata lo vedremo presto.
Spero che tu abbia ragione ed io torto.
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mazzetta
30 novembre 2012
lo spero anche io e non per dimostrare le mie ragioni :D
la questione oggi è molto più semplice, perché con il voto di ieri non importa più quello che ritengono americani o israeliani, niente più discussioni sulla Genesi, nix, nada, zero, perché la “promozione” a stato produce una novazione e un cambio drastico del quadro di diritto di riferimento
la Palestina oggi è, ed è quella che è stata riconosciuta dagli altri paesi del mondo, con i territori compresi entro i confini del 67
da qui si riparte senza guardare indietro, perché quello che c’è indietro ora non esiste più, visto che il riconoscimento dell’esistenza di uno stato per il diritto internazionale è obbligatoriamente a) incondizionato b) irrevocabile e visto che il riconoscimento di un numero sufficiente di paesi (non l’iscrizione all’ONU) ha carattere costitutivo inappellabile
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giulia sciannella (@muuffa)
30 novembre 2012
Finalmente un articolo che DICE qualcosa. Grazie.
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