I due Sudan han fatto la pace del petrolio

Posted on 22 agosto 2012

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Mancando un ritorno dal fare leva sul nazionalismo e i sentimenti anti-nordisti, il governo di Juba è tornato sui suoi passi.

In teoria il governo del Sud aveva interrotto la produzione petrolifera perché riteneva esosa la richiesta di oltre 30 dollari a barile per il transito del suo petrolio attraverso l’oleodotto che attraverso il Nord porta il petrolio al terminale sul Mar Rosso di Port Sudan. In pratica si è trattato di una mossa che si è accompagnata ad un attacco del Sud contro il Nord nella zona di confine tra i due paesi, proprio in una delle zone di produzione petrolifera rimaste al Sud dopo che poco più di un anno fa il Nord aveva ottenuto e ufficializzato la secessione al termine di una ventina d’anni di tregua e di cinque anni di regime transitorio in attesa del referendum con l quale gli abitanti del Sud l’hanno validata.

Il governo di Juba però si è mostrato incapace di gestire il nuovo paese e per di più sono già spariti i fondi incassati negli anni precedenti all’indipendenza senza che i cittadini vedessero una sola opera pubblica realizzata o l’approntamento di qualsiasi servizio pubblico. Giusto l’acquisto di un centinaio di vecchi carri armati russi dall’Ucraina in violazione dell’embargo alla forniture di armi ai due paesi. Se a questo si aggiunge che il Sud Sudan è del tutto privo di strade e infrastrutture, si capisce bene il malcontento di quanti hanno cominciato a contestare la gestione del potere da parte degli ex geurriglieri sudisti, per tacitare i quali il governo non ha trovato di meglio che alzare la tensione con il Nord.

L’iniziativa si  è però rivelata a doppio taglio, perché se il Nord ne ha sofferto, il Sud è rimasto del tutto a secco di entrate, visto che dipendevano tutte dall’export petrolifero. Americani, cinesi e l’Unione Africana si sono impegnati perché le due parti raggiungessero un accordo. I primi due in particolare hanno interesse diretto nella faccenda, i primi perché anche se la sparizione del prodotto sudanese dai mercati non ha fatto rumore ha indubbiamente contribuito ad alzare i prezzi, ma soprattutto perché il ritorno della produzione sudanese compenserebbe il calo iraniano dovuto all’embago voluto fortemente proprio dagli USA. I secondi perché sono i maggiori acquirenti, oltre ad aver costruito l’oleodotto e tutte le infrastrutture che ne permettono l’export.

Alla fine l’accordo è stato raggiunto per 9.48 dollari a barile, all’inizio il Nord ne chiedeva 36 e la corresponsione di tre miliardi di dollari in compensazioni a Khartum. Una buona notizia, l’unica dai due paesi nelle ultime settimane. A Nord infatti il governo è alle prese con due ribellioni di province meridionali che volevano unirsi al Sud, alle quali si è aggiunto lo scoppio della locale primavera araba. Dopo settimane di proteste ed arresti il regime di al Bashir ha risposto da un lato rilasciando decine di arrestati in occasione dell’inizio del Ramadam, dall’altro aprendo il fuoco su una manifestazione e uccidendo alcuni dimostranti nella capitale amministrava del Darfur, dove i dimostranti a differenza che nella capitale hanno attaccato e dato alle fiamme alcuni edifici pubblici. Sette morti secondo Associated Press, 12 secondo Girifna, collettivo che alimenta la locale primavera contro il regime di al Bashir.

La primavera sudanese è animata dalla striminzita classe media che vive per lo più nella capitale e che sente i morsi della crisi che ha colpito anche lì. Con un’inflazione al 26% e il governo che ha svalutato la locale sterlina per ritrovarsela ancora più svalutata al cambio clandestino, per i cittadini sudanesi la vita si è fatta molto dura.  Situazione quasi identica al Sud, che dovendo importare praticamente tutto ne è rimasto colpito ancora più severamente e che assiste impotente a un notevole disastro umanitario.

Su oltre 600.000 profughi e rifugiati in fuga dalle violenze, “solo” 170.000 sono fuggiti dal Nord. Il resto sono figli di una serie di  sanguinose faide tra tribù locali per il possesso del bestiame, che in quelle aree è moneta, prestigio e unica garanzia di sopravvivenza. Tanto che un editoriale di The Citizen ha invocato una diminuzione delle richieste per la dote matrimoniale, che si paga in vacche e pare abbia raggiunto cifre mai viste prima. L’ONU nel frattempo ha aperto un’indagine sull’autoproclamata Nuer White Army, che altro non è che un gruppo armato che ha fatto razzie di bestiame e scatenato la sua potenza di fuoco contro le tribù avversarie,  costringendo centinaia di migliaia di abitanti delle regioni di Unity e Jonglei alla fuga.

Incapace di mantenere l’ordine come di governare, al governo di Juba non è rimasto che affidarsi alle agenzie internazionali, che da tempo denunciano una situazione allarmante data l’impossibilità di recapitare gli aiuti a causa degli estesi allagamenti che costellano il paese all’arrivo della stagione delle piogge e che riducono a pantani le strade sterrate del paese. MSF ha denunciato una moria di bambini e la latitanza dei paesi donatori e dello stesso governo. La ripresa della produzione petrolifera non modificherà significativamente un quadro tanto triste, perchè da un lato i limiti del regime di al Bashir sono noti e anche perché si è già visto che il governo del Sud non può e non sa intervenire. Incapace come si è dimostrato nel tempo trascorso dall’indipendenza, che per ora non sembra quella benedizione che era stata annunciata.

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