
Le notizie dall’Iraq continuano ad essere sconfortanti e a passare largamente ignorate, quasi che il paese fosse tornato alla normalità, mentre l’anno scorso e quello in corso hanno registrato un numero vittime per attentati e attacchi superato solo dalle due guerre civili in Libia e Siria. Eppure il paese che è costato una guerra facile e un’occupazione rovinosa a mezzo Occidente non sembra fare notizia, forse rimosso dalla cattiva coscienze di tanti commentatori e tanti media che “patriotticamente” hanno sostenuto l’insana impresa e poi si sono dileguati al suo fallimento, testimoniato da giornate che sono ancora scandite da lunghe liste di attentati o uccisioni. Il governo per parte sua risponde con durezza, ma e senza grande efficacia. Nei giorni scorsi è stata eseguita la sentenza capitale per l’ex segretario personale di Saddam e le forze governative continuano a dimostrare un discreto disprezzo per i diritti umani e civili, così come continuano le accuse di torture ed esecuzioni stragiudiziali da parte delle forze di sicurezza.
A dispetto della mancanza d’attenzione tuttavia gli iracheni vivono e sopravvivono e il governo Maliki governicchia e il parlamento iracheno sembra funzionare relativamente in mezzo a tensioni settarie e alle evidenti ingerenze di tutti i paesi confinanti, ma a differenza dell’Afghanistan esiste una dialettica politica e anche l’evidente capacità delle forze rappresentate nel parlamento e al governo di sapersi confrontare con l’esistenza di un interesse nazionale quando serve. Il che è il problema maggiore che hanno gli americani, perché è abbastanza evidente che il governo e i legislatori non sono per niente contenti della prolungata permanenza americana, che il prossimo anno compirà un decennio e promette di tener compagnia ai governi iracheni ancora a lungo.
Una lunga serie di confronti legali e di piccoli no è riuscita a ridurre la mobilità degli americani nel paese e persino il ritrovato controllo dello spazio aereo è servito a limitare l’operatività americana. Se ne sono lamentati i rappresentanti mandati davanti al Congresso in udienza conoscitiva, che hanno ricordato come gli iracheni abbiano vietato loro anche l’uso delle autoblindo, circostanza che ha minato la capacità di controllare l’avanzamento dei progetti in corso. Come non agevola il fatto che gli iracheni fermino sistematicamente e spesso detengano i contractors americani ai checkpoint. Non ha fatto contenti gli americani nemmeno il fatto che gli iracheni abbiano firmato accordi vincolanti per solo cinque delle 11 basi reclamate da Washington.
Progetti che costano e sono costati molto, pochi anni fa fece sensazione il raggiungimento della cifra di mille miliardi di dollari di spesa, oggi secondo uno studio della Brown University siamo arrivati nei pressi dei duemila, nei quali non sono ovviamente comprese le spese degli alleati e nemmeno quelle a carico degli iracheni. E buona parte dei quali non si sa nemmeno dove sono finiti o per cosa siano stati spesi davvero. Se si pensa che solo per l’aria condizionata l’esercito spende tra Iraq e Afghanistan 20 miliardi di dollari all’anno (NPR, giugno 2011), si comprende come il conto possa risultare tanto alto. A servire i 2.000 “diplomatici” lasciati a Baghdad dagli americani oggi ci sono 14.000 contractor e anche il dispositivo militare residuo e la supervisione di quello che accade impattano pesantemente sui conti, che non sono migliorati moltissimo dopo la partenza di buona parte delle truppe. Spese per niente verrebbe da dire, visto che al Congresso non è ancora stata presentata una lista minimamente corposa di progetti portati a buon fine, anche se i soldi c’erano e quasi un decennio sembrerebbe un tempo congruo per attendersi qualche risultato che però non c’è.
In compenso l’Iraq è diventato il secondo esportatore dell’Opec superando l’Iran ammaccato dall’embargo, ma anche grazie alle proprie forze, un ritorno che non può che preoccupare l’Arabia Saudita, per ora impegnata a compensare il buco provocato dall’embargo a Teheran, che considera arci-nemica, tanto che ai noti propositi della casa reale saudita si è aggiunto di recente il ministro degli esteri Saud al-Faisal che ha affermato che non si può trattare con l’Iran, ma che bisogna attaccarlo.
Sauditi ed emirati si preparano all’eventualità, senza sapere che gioco giocherà l’Iraq, che non mette in discussione la sua “alleanza” con gli Stati Uniti, ma che tutti continuano a considerare troppo vicino a Teheran, anche se non abbastanza da respingere l’ordine di Baghdad per alcuni F-16 americani, identici a quelli comprati in gran numero dai sauditi. Mentre gli emiratini hanno cominciato a costruire un oleodotto di quasi 400 chilometri che arriva al mare oltre lo Stretto di Hormuz, i sauditi hanno riattivato l’oleodotto costruito dagli iracheni fino al Mar Rosso per evitare gli attacchi iraniani al tempo di Saddam, l’Iraqi Pipeline in Saudi Arabia (IPSA), poi sequestrato come risarcimento di guerra dopo l’invasione del Kuwait e fino a poco tempo fa usato per mandare gas in direzione opposta. L’aumento della produzione saudita e il ritorno di quella libica ai livelli pre-rivoluzionari hanno colmato agevolmente il buco lasciato dall’Iran, ma ormai è chiaro che l’Opec, che negli anni ha perso molto potere, presto dovrà confrontarsi con un nuovo forte azionista, visto che la produzione irachena può crescere ancora molto e sembra essere intenzionato a farlo, almeno a giudicare dalla lunga teoria d’accordi per nuovi pozzi e nuove prospezioni che continua a siglare. Non per niente tutti gli osservatori sono concordi nel dire che nei prossimi anni l’Iraq oltre a superare per propri meriti l’Iran, potrebbe addirittura diventare il maggiore esportatore di gas e petrolio dell’Opec. Questo ovviamente se il paese riuscirà a darsi un equilibro tale da sopravvivere alle numerose e robuste pressioni da parte dei paesi confinanti e alle sue stesse tensioni interne, che per ora hanno rallentato moltissimo la messa a reddito dei pozzi
Una previsione difficile, quella su tenuta e sviluppi della situazione nel paese, che ha ancora due milioni di profughi interni e quasi altrettanto all’estero, per lo più ammassati in Siria e ora presi nel mezzo dalla guerra civile, che potrebbe determinare un brusco ritorno di questi profughi, come un massiccio afflusso di profughi siriani se la situazione umanitaria dovesse degenerare. Persone che l’Iraq non può respingere fisicamente e nemmeno moralmente e che al momento rappresentano la “minaccia” più attuale alla stabilità di un paese che per ora non molto più stabile della stessa Siria. Persone che, anche restando così le cose, dopo quasi dieci anni vivono in buona parte ancora in tende e baracche. Anche questo è uno dei costi da aggiungere al conto di quella follia che fu la guerra “preventiva” contro la mortale minaccia rappresentata da “Hitler” Saddam e dalle sue fantastiche armi di distruzione di massa, parto della fantasia dei guerrafondai.
Pubblicato in Giornalettismo
Posted on 30 giugno 2012
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